Omaggio a Dante (II)
Secondo articolo dedicato a Dante, nel 700° anniversario della morte. Per leggere il primo, ecco il link (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2021/02/dante-e-con-noi-i/).
Quest’articolo è dedicato alla figura di Ulisse, sul quale si possono anche leggere gli articoli apparsi su questo Blog
– (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2019/08/circe-ulisse-1/)
– (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2019/08/circe-ulisse-2/)
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– (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2019/08/circe-ulisse-4/ )
– (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2019/08/circe-ulisse-5-fine/).
Dante e Virgilio, nel girone dei Consiglieri Fraudolenti, trovano-tra gli altri-Ulisse e Diomede, eroi della guerra contro Troia, e accomunati dalla capacità di dissimulare e di mentire, anche al di fuori del contesto bellico.
Omero aveva lungamente scritto di Ulisse nell’Iliade, e gli aveva dedicato “Odissea”, il poema del “νόστος” (del ritorno).
Kavafis (Konstantinos Petrou Kavafis). In greco: Κωνσταντίνος Καβάφης; Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933), è stato un poeta e giornalista greco. scrisse “Itaca”, una poesia dedicata ad Ulisse ((http://www.ilgrandeinquisitore.it/2021/02/dante-e-con-noi).
I) Inferno: Canto XXVI
“…Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa, 25
nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi (*)
vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’ esser urto.
E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
«Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ‘n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’ io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». 142
(*) Eliseo (2Re2:1-23)
II) Ulisse:
1) Baruch Spinoza:” Ethica ordine geometrico demonstrata”; Libro III:
A) Proposizione 6: Ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere;
B) Proposizione 8: Lo sforzo con cui ogni cosa cera di perseverare nel proprio esistere implica un tempo infinito, e non già
finito;
2) “… l’Uomo è un Essere che trascende se stesso; e la propria e l’altrui vita…” (M.Heidegger: “Essere e Tempo”). Anche secondo Dante, Ulisse trascende continuamente se stesso e la propria vita, prima, durante e dopo la guerra di Troia.
! Come Kierkegaard, Heidegger riconduce la tendenza a trascendere la propria vita alla paura del nulla. La grande novità consiste tuttavia nel fatto che Heidegger collega in positivo questo sentimento del nulla al problema della morte: riprendendo Platone, si può affermare che la vita del saggio è una lunga preparazione alla morte, la quale (nella prospettiva platonica) altro non è se non un trapasso ad un’altra vita puramente spirituale; Dante stesso, similmente, afferma che il vivere è un correre alla morte. Heidegger, invece, parla espressamente di essere-per-la-morte, espressione che, un po’ come quella platonica, suggerisce come il vivere sia in funzione della morte. In sostanza, ciò che Heidegger vuol dire quando parla di essere-per-la-morte è che la caratteristica costitutiva dell’esser-ci è di essere finito e, in virtù di ciò, di sentire la prospettiva del nulla e di essere colto per questo dall’angoscia, la quale è, appunto, il sentimento della morte: ora, questo sentimento, nella tradizione precedente ad Heidegger era per lo più stato considerato come distruttivo, dal momento che, in vista della morte, ogni nostra azione perde di significato e, non a caso, di fronte al senso di questo carattere distruttivo della morte l’uomo è ricorso alla religione, cioè al convincimento che la morte non sia la fine di tutto; così era anche per Platone, che concepiva la morte come apertura di una nuova e più alta prospettiva di vita.
3) Dante, che era anche teologo, a proposito di Ulisse, ha certamente in mente la famosa parabola evangelica:” In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv: 12:24);
4) “…l’azione di Ulisse è indubbiamente il viaggio di Ulisse, perché Ulisse altri non è che il soggetto di cui si predice quell’azione, ma l’azione-o impresa-di Dante non è il viaggio di Dante, ma il suo libro …la Commedia è redatta in prima persona, e l’uomo che è morto è stato messo in ombra dal protagonista immortale. Dante era teologo, e più di una volta la stesura della Commedia gli sarà parsa un’impresa non meno ardua…dell’ultimo viaggio di Ulisse …Dante simboleggiò (il proprio conflitto mentale: Nostra Nota) …nella tragica storia di Ulisse, e…a tale carica emotiva questa (storia) deve la sua tremenda forza. Dante fu Ulisse e in qualche modo poté temere il castigo di Ulisse…” (Jorge Luis Borges:” Nove Saggi Danteschi”; Adelphi; pp. 48-49);
5) “…ancora non è stata indicata….un’affinità più profonda, quella dell’Ulisse infernale con un altro capitano sventurato: Ahab di Moby Dick. Questi, come quegli, costruisce la propria perdizione a forza di veglie e di coraggio: il tema generale è lo stesso, la conclusione è identica, le ultime parole sono quasi uguali. Schopenauer ha scritto che nelle nostre vite nulla è involontario. Entrambe le finzioni, alla luce di questo prodigioso giudizio, sono il processo di un occulto e intricato suicidio …” (Borges, cit; p.49)
III) Terminata dopo 10 anni la Guerra di Troia, per i Greci Vincitori il ritorno ( νόστος) fu arduo almeno quanto la guerra stessa:
1) Agamennone (Ἀγαμέμνων=molto determinato): fu ucciso da Egisto, amante della moglie Clitennestra.
A)“Agamennone” di Eschilo; B)” Ifigenia in Aulide” di Euripide; C) “Agamennone” di Seneca;
2) Menelao ( Μενέλαος): fratello minore di Agamennone, e marito di Elena:
A) “Cypria” o Canti Ciprii ( Κύπρια, Kýpria);
B) “Aiace” di Sofocle;
C) “Troiane” di Euripide
3) Diomede (Διομήδης): Vinta e saccheggiata Troia, Diomede si imbarcò per l’Italia insieme ai suoi compagni: Acmone, Lico, Idas, Ressenore, Nitteo, Abante. Dopo aver errato a lungo nel mare Adriatico si fermò in più porti insegnando alle popolazioni locali la navigazione e l’addomesticamento ed allevamento del cavallo. La diffusione della navigazione forse aveva l’intento di ottenere il perdono dalla dea nata dalla spuma del mare e considerata divinità della buona navigazione (Afrodite euplea). In ogni caso si realizza così una straordinaria trasformazione: Diomede diventa l’eroe del mare e della diffusione della civiltà greca. Era infatti venerato come benefattore ed ecista (οἰκιστής) ad Ankón (Ancona); , a Pola, a Capo San Niccolò (in Dalmazia); , a Vasto, a Lucera e all’estremo limite dell’Adriatico. Secondo la leggenda, fondò molte città italiane, tra cui Vasto (Histonium); Andria; Brindisi; Benevento; Argiripa (Arpi) presso l’attuale Foggia; Siponto presso l’attuale Manfredonia; Canusio (Canosa di Puglia); Equo Tutico (Ariano Irpino); Drione (San Severo),; Venafrum (Venafro); Castellaneta (Taranto), e infine Venusìa (Venosa). La fondazione di quest’ultima città, come lo stesso toponimo (da Venus) ricorda, coincide con il perdono ottenuto da Afrodite, in seguito al quale si stabilì in Italia meridionale e si sposò con la figlia del Re del popolo dei Dauni: Evippe.
- IV) L’Ulisse di Omero
Odissea: Libro X
(Circe invia Ulisse nell’Ade, per consultare Tiresia. La vita di Ulisse, secondo Omero, ubbidisce ad un disegna trascendente).“…Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro 602
Rendimi natio ciel, cui sempre vola,
Non pure il mio, ma de’ compagni il core,
De’ compagni, che stanno a me d’intorno,
Sempre che tu da me t’apparti, e tutta
Con le lagrime lor mi struggon l’alma.
O di Laerte sovrumana prole,
La Dea rispose, ritenervi a forza
Io più oltre non vo’. Ma un’altra via
Correre in prima è d’uopo: è d’uopo i foschi
Di Pluto, e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del Teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro conserva della mente il lume;
Di Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son, che vani spettri, ed Ombre.
Rompere il core io mi sentii. Piagnea,
Su le piume giacendomi, nè i raggi620
Volea del Sol più rimirare. Al fine,
Poichè del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio, Or qual, ripresi,
Di tal viaggio sarà il Duce? All’Orco
Nessun giunse finor su negra nave.
Per difetto di guida, ella rispose,
Non t’annojar. L’albero alzato, e aperte
Le tue candide vele, in su la poppa
T’assidi, e spingerà Borea la nave.
Come varcato l’Oceáno avrai,
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto
Di pioppi eccelsi, e d’infecondi salci
Bosco di Proserpína: a quella piaggia,
Che l’Oceán gorghiprofondo batte,
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.
Rupe ivi s’alza, presso cui due fiumi
S’urtan tra lor romoreggiando, e uniti
Nell’Acheronte cadono: Cocito,
Ramo di Stige, e Piriflegetonte.
Appréssati alla rupe, ed una fossa,
Che un cubito si stenda in lungo, e in largo,
Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,
Indi vin puro, e limpidissim’onda,
Vérsavi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspergi.
Poi degli estinti prega i frali, e vôti
Capi, e prometti lor, che nel tuo tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherai, di doni il rogo650
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerai nerissimo arïete,
Che della greggia tua pasca il più bello.
Compiute ai Mani le preghiere, uccidi
Pecora bruna, ed un monton, che all’Orco
Volgan la fronte: ma converso tieni
Del fiume alla corrente in quella il viso.
Molte Ombre accorreranno. A’ tuoi compagni
Le già sgozzate vittime, e scojate
Mettere allor sovra la fiamma, e ai Numi,660
Al prepotente Pluto, e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
E tu col brando sguainato siedi,
Nè consentir, che anzi, che parli al vate,
I Mani al sangue accostinsi. Repente
Il profeta verrà, Duce di genti,
Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar pescoso alle natie contrade
Ti darà, quanto basta, indizio e lume.
Così la Diva; e d’in su l’aureo trono
L’Aurora comparì. Tunica e manto
Circe stessa vestimmi; a sè ravvolse
Bella, candida, fina, ed ampia gonna,
Si strinse al fianco un’aurea fascia, e un vago
Su i ben torti capei velo s’impose.
Ma io, passando d’una in altra stanza,
Confortava i compagni, e ad uno ad uno
Con molli detti gli abbordava: Tempo
Non è più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe.
Si levaro, e obbediro. Ahi che nè quinci
Mi si concesse ricondurli tutti!
Un Elpenore v’era, il qual d’etate
Dopo gli altri venia, poco nell’armi
Forte, nè troppo della mente accorto.
Caldo del buon licore, onde irrigossi,
Si divise dagli altri, ed al palagio
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udito il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga690
Scala di dietro scendere obbliando,
Mosse di punta sovra il tetto, e cadde
Precipite dall’alto: il collo ai nodi
Gli s’infranse, e volò l’anima a Dite.
Ragunatisi i miei, Forse, io lor dissi,
Alle patrie contrade andar credete.
Ma un altro pria la venerabil Diva
Ci destinò cammin, che ai foschi regni
Di Pluto, e di Proserpina conduce,
Per quivi interrogar del rinomato
Teban Tiresia l’indovino spirto.
Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
E la chioma stracciavansi: ma indarno
Lo strazio della chioma era, ed il pianto.
Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime spargevam, Circe, che in via
Pur s’era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora, e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
Con piè leggiero. Chi potria de’Numi
Scorgere alcun, che qua, o là si mova,
Quando dall’occhio uman voglion celarsi?…”.
Fine Seconda Parte
Continua