“Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov
Capitolo 26° : La Sepoltura
Terza Parte / Третья часть
Continuiamo la serie di articoli dedicati al 26° capitolo del romanzo di Michail Bulgakov. Per i precedenti, puoi cliccare qui.
Giuda passò oltre la bottega del cambiavalute, e finalmente arivò alla porta del Getsemani. In essa, pur ardendo dal desiderio, fu costretto a fermarsi. Nella Città erano entrati i cammelli e subito dopo era uscita una pattuglia siriaca, che Giuda mentalmente maledisse… Ma tutto ha una fine. L’impaziente Giuda era già alle mura cittadine. Sulla sinistra, Giuda scorse un piccolo cimitero e accanto ad esso dei tendoni a strisce dei pellegrini. Dopo aver attraversato la strada polverosa, inondata dalla luce della Luna, Giuda si precipitò verso il torrente Cedron, per attraversarlo. L’acqua scorreva silenziosa ai piedi di Giuda. Saltando di pietra in pietra, egli finalmente raggiunse a fatica la sponda opposta del Getsemani, e con grande gioia vide che la strada nei pressi dei giardini era vuota. A poca distanza, si scorgeva il portone semidistrutto di un podere di ulivi. Dopo la città afosa, un inebriante odore primaverile nella notte colpì Giuda. Dal giardino, attraverso il recinto, dalla radura del Getsemani, traboccava un odore di mirti e di acacie. Nessuno custodiva la porta. Alla porta non c’era nessuno e in pochi minuti Giuda già correva all’ombra misteriosa di rigogliosi e giganteschi alberi di ulivo. La strada conduceva alla montagna. Giuda saliva ansimando e ogni tanto Giuda usciva dall’ombra sui tappeti lunari, con le fantasie che gli ricordavano i tappeti che aveva visto nella bottega del geloso marito di Nisa. Dopo un po’, dalla parte sinistra di Giuda, comparve sulla radura un frantoio di olive, con una pesante ruota di pietra, e un ammasso di alcune botti. Nel giardino non c’era nessuno. Le attività erano cessate al tramonto, e ora sulla Giudea risonavano e riecheggiavano i canti degli usignoli. L’obiettivo di Giuda era vicino: egli sapeva che a destra, nell’oscurità, in quel momento avrebbe cominciato a sentirsi il dolce rumore dell’acqua che cadeva nella grotta.
E così fu: egli sentì il rumore. Si stava facendo più freddo, allora egli rallentò il passo e a bassa voce chiamò: “ Nisa!”. Ma invece di Nisa, che si era staccata dal grande tronco di un ulivo, sulla strada saltò fuori un uomo dalla figura robusta e nella sua mano comparve qualcosa, che subito scomparve. Giuda, emettendo un debole grido, si buttò all’indietro, ma un secondo uomo gli sbarrò la strada. Il primo, che era di fronte, chiese a Giuda:
“ Quanto ha ricevuto poco fa? Parla, se vuoi avere salva la vita!”
Una speranza si accese nel cuore di Giuda ed esclamò accanitamente:
“ Trenta denari! Trenta denari! Tutto ciò che ho preso è qui con me. Ecco i denari! Prendeteli, ma salvatemi la vita! “
L’uomo di fronte a Giuda prese il portamonete dalle mani di Giuda. E in quell’attimo, alle spalle di Giuda, spuntò un coltello che, come un fulmine colpì l’innamorato vicino alla scapola. Giuda, spinto in avanti, portò in avanti le mani con le dita attorcigliate. L’uomo che era davanti intercettò Giuda sul proprio coltello e lo infilò fino all’impugnatura nel cuore di Giuda.
“ Ni-sa!” – non con la propria voce giovanile, ma con grave voce di rimprovero, parlò Giuda e non emise più alcun altro suono. Il suo corpo sbatté così violentemente a terra, che essa cominciò a sussultare. Allora una terza figura comparve sulla strada. Questo terzo uomo portava un mantello col cappuccio. “ Non indugiate!” – ordinò.
Gli assassini rapidamente impacchettarono il portamonete insieme a un biglietto, preparato dal terzo uomo, e avvolsero tutto con una corda. Il secondo uomo nascose il pacco in petto e, dopo, entrambi gli assassini uscirono dalla strada, uno da una parte, l’altro dall’altro lato, e l’oscurità li inghiottì tra gli ulivi. Il terzo, invece, si accovacciò accanto all’ucciso, e gli diede un’occhiata in viso. Al buio, il viso apparve alla vista bianco come il gesso e, in un certo senso, spiritualmente bello. Dopo alcuni attimi, lì non rimase alcun essere vivente. Il corpo esanime giaceva con le mani stese; il piede sinistro si trovava nella macchia lunare, sicché era visibile ogni cinturino del sandalo. Tutto il Giardino del Getsemani, in quella stagione, risonava del canto degli usignoli. Nessuno sa dove si diressero gli scannatori di Giuda, invece il percorso del terzo uomo, quello col cappuccio, è noto: lasciando lo stradino, egli si precipitò nel folto del bosco degli alberi di ulivo, facendosi strada verso Sud. Egli oltrepassò il recinto de giardino, dove erano crollate le opere in muratura dei camini costruiti sopra.
Poco tempo dopo, si trovò sulla riva del Cedron. Allora, entrò nell’acqua e per qualche tempo avanzò nell’acqua del torrente, finché non vide in lontananza il profilo di due cavalli, e di un uomo accanto ad essi. Anche i cavalli si trovavano nella corrente, e l’acqua scorreva bagnando i loro zoccoli. Il guardiano dei cavalli si sedette du uno dei cavalli; l’uomo col cappuccio, sull’altro, e lentamente entrambi si mossero nella corrente, facendo risonare le pietre sotto gli zoccoli dei cavalli. Dopo, i cavalieri uscirono dall’acqua, con fatica raggiunsero la riva dalla parte di Gerusalemme e, al passo, si incamminarono sotto le mura della Città. Allora, il guardiano dei cavalli si staccò, si allontanò balzando in avanti e sparì dalla vista, e l’uomo col cappuccio fermò il cavallo, scese con lui nella strada deserta, si tolse il mantello, lo rivoltò, estrasse da sotto il mantello un elmo poco fondo e senza piumaggio, e lo mise in testa. Poi balzò sul cavallo, in una palandrana militare, e una spada corta al fianco. Toccò le redini, e l’ardente cavallo militare avanzò al trotto, scuotendo il cavaliere. La strada era poco lontana; il cavaliere si avvicinò alla porta meridionale di Gerusalemme. Sotto l’arco della porta, danzava e brillava il fuoco irrequieto delle fiaccole. I soldati di guardia, della Seconda Centuria della Legione Fulminata, sedevano sulle panche in pietra, giocando a dadi. Vedendo un militare che entrava, i soldati scattarono in piedi su posto, e il militare (li) oltrepassò ed entrò nella Città, inondata dalle luci della Festa. In tutte le finestre splendeva il fuoco delle lampade e da tutte le parti, fondendosi in coro caotico, risonavano lodi smodate. Di tanto in tanto, il cavaliere non poteva staccare gli occhi dalle finestre che affacciavano sulla strada, e poteva vedere persone sedute al tavolo della festa, sul quale (tavolo) si trovava carne di capra, erano appoggiati calici di vino, in mezzo a piatti con erbe amare. Fischiettando una innocente canzonetta, il cavaliere – che procedeva lentamente al trotto – entrò in una strada deserta della Città Bassa, e si diresse verso la Torre Antonina. Di tanto in tanto, dava un’occhiata ai candelabri a 5 candele, quali mai si erano visti, che illuminavano il Tempio, oppure guardava verso la luna, che sovrastava molto più in alto dei candelabri. Il Palazzo di Erode il Grande non partecipava alla Festa della Notte di Pasqua.
Nelle stanze secondarie del Palazzo, poste a sud, erano sistemati gli ufficiali romani della Coorte e il legato della Legione. Qui, invece, risplendevano le luci, e si sentiva un po’ di movimento e di animazione. L’Anticamera del Campo e l’entrata principale, dove c’era l’unico e occasionale abitante del Palazzo, e cioè il Procuratore, tutto, con i propri colonnati e le statue ricoperte d’oro era come se risplendesse sotto la splendente Luna. Lì, non dominavano il buio e il silenzio. Lì, il Procuratore, da quando aveva parlato con Afranio, non aveva avuto voglia di entrare: aveva ordinato di preparare un letto sul balcone – dove di solito pranzava – e proprio dove – al mattino – aveva condotto l’Interrogatorio. Il Procuratore si sdraiò sul letto che era stato preparato, ma il sonno non voleva arrivare. La luna scoperta era sospesa in alto, nel cielo limpido, e il Procuratore la rimirò per qualche ora. Circa a mezzanotte, all’improvviso, il sonno ebbe pietà dell’Egemone. Sbadigliando febbrilmente, il Procuratore si tolse il mantello dopo averlo sbottonato, sciolse la cintura, che fermava la camicia ai fianchi. Alla cintura era fissato un grosso coltello d’acciaio in un guaina, che egli posò sulla poltrona, vicino al letto; sciolse i sandali, e si coricò. Banga, allora, si alzò verso di lui sul letto, e si stese accanto a lui, testa vicino alla testa, e il Procuratore, posta una mano sul collo del cane, finalmente chiuse gli occhi. Solo allora prese sonno, e il cane con lui. Il letto era nella semi-oscurità, nascosto dai raggi della luna, la cui luce, tuttavia, si allungava fino sui gradini del terrazzino d’ingresso, vicino al letto. Proprio allora, il Procuratore perse contatto con la realtà circostante; all’improvviso si commosse per la strada così fortemente illuminata, e cominciò salire in alto, verso di essa, che arrivava sulla luna. Egli, addirittura, dalla felicità, rise nel sonno, perché tutto si era concluso per il meglio, e per la irripetibile luce diafana sulla strada, lungo la quale procedeva accompagnato da Banga, a fianco del quale andava anche il <filosofo vagabondo>. Loro due discutevano di questioni molto complesse e importanti, e l’uno riusciva a prevalere sull’altro. Essi, infatti, dissentivano su qualcosa, e quindi la loro discussione era particolarmente interessante, e interminabile. Era comunque chiaro che la sentenza capitale di quel giorno era stato, in tutti i sensi, un errore. Allora, il Filosofo che ripeteva l’inverosimile fandonia, secondo cui tutti gli uomini sono buoni, procedeva al suo fianco, e perciò era ancora vivo. Ecco, il Procuratore, potuto neanche lentamente pensare di far giustiziare un uomo così! L’esecuzione capitale non c’era stata! No, non c’era stata: ecco in cosa consisteva il fascino di quel viaggio sulla scala verso la Luna.