Circe e Ulisse (2)

Circe & Ulisse (2)
(Verso l’incontro fatale con la Maga Circe )

   Circe e Ulisse stanno per incontrarsi. Siamo nel X canto dell’Odissea, ed è già avvenuto il naufragio in prossimità di Itaca, la patria comune, la patria del ritorno (νόστος): Vedi la Prima Parte di questo articolo. (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2019/08/circe-ulisse-1/).
Ulisse, avendo ordinato ai propri riottosi compagni d’avventura di riprendere le vele, dopo una navigazione di 6 giorni, al settimo, giunge all’isola di Eea, dove abita la Maga Circe. Il luogo sarebbe da collocare nell’attuale promontorio del Circeo, nel Lazio (
http://www.treccani.it/enciclopedia/eea/).
L’Odissea (
http://www.treccani.it/enciclopedia/odissea/) è il secondo dei due poemi attribuiti ad Omero; il primo è l’Iliade. Entrambi hanno per tema la Guerra di Troia, che sarebbe avvenuta-secondo quasi tutti gli Storici-nel XII secolo a.C.
Chi conosce anche superficialmente la letteratura greca classica, rimane colpito dalla fama e dal rispetto che accompagnavano il nome di Omero: Platone cita molte volte Omero, e alla semplice citazione aggiunge anche l’esegesi di brani delle sue opere più famose (
https://giuseppecapograssi.files.wordpress.com/2015/03/platone_a_cura_di_giovanni_reale_tutti_gli_scribookzz-org.pdf).

 Ulisse nella casa di Alcinoo Francesco Fayez

Ulisse nella casa di Alcinoo Francesco Fayez

I) Lamo, isola dei Lestrigoni:
La prima tappa è all’isola di Lamo, abitata da una popolazione di giganti antropofagi. Ulisse nasconde la propria nave, mentre tutte le altre vengono ormeggiate nel porto. I cannibali attaccano e cannibalizzano tutti i compagni di Ulisse, tranne quelli della sua nave, ormeggiata in un andito sicuro del porto di Lamo!

 

Anonimo_fiorentino,_Il_naufragio_della_nave_di_Ulisse,_1390-1400_ca

Fiorentino, ca. 1390-1400. Vaticano, Biblioteca Apostolica MS lat. 4776. Il naufragio della nave di Ulisse. Charles S. Singleton (Inferno XXVI)



E per sei giorni cosí navigammo di e notte; e di Lamo

sotto l’eccelsa rocca giungemmo nel settimo, sotto

la lestrigonia Telèpilo, dove il pastor che rientra

manda il Saluto, e il pastore risponde che al pascolo muove.

Chi non dormisse, qui potrebbe lucrar due mercedi,

una pascendo i bovi, e l’altra le candide greggi:

ché della notte e del giorno vicine qui sono le strade.

Quivi giungemmo, in un porto bellissimo: d’ambe le parti

muri di rocce si levano altissimi, a cingerlo tutto,

sorgono promontori sporgenti dinanzi alla bocca,

l’uno di fronte all’altro: sicché molto angusto è l’ingresso.

Tutte qui dentro i compagni recaron le navi eleganti.

Tutte all’ormeggio cosí fúr legate nel concavo porto,

l’una vicina all’altra: ché quivi né poco né molto

mai non si gonfia il flutto; ma sempre v’è bianca bonaccia,

lo solamente la bianca mia nave trattenni al di fuori,

ad un estremo del porto legando la gómena a un masso.

Poi, sovra un’alta asceso vedetta di rupi, mi stetti.

Quivi non opra di bovi, non opra apparia di bifolchi;

ma vedevamo fumo soltanto levarsi da terra.

E dei compagni allora mandai, che prendesser parola,

quale mai gente fosse che pane in quei luoghi cibava.

Due dei compagni scelsi, con lor mandai terzo l’araldo

Per una via spianata si misero quelli, ove i carri

alla città, dalle cime dei monti, recavano legna.

E una fanciulla incontraron gigante, che acqua attingeva

dinanzi alla città, del Lestrigone Antifate figlia.

Essa alla fonte Artacia dai limpidi gorghi era scesa;

poi che da questa l’acqua soleano portare alla rocca.

Presso i compagni a lei si fecer, le volser dimande:

chi fosse re di quella contrada, e che sudditi avesse.

Súbito quella indicò del padre l’eccelsa dimora.

E come quelli entrati vi furon, trovaron la moglie,

alta quanto la vetta d’un monte; e sgomento li colse.

Essa Antifate prode, suo sposo, chiamò dalla piazza;

che concepí contro i miei compagni un funesto disegno.

Uno dei tre lo afferrò, ne imbandí succulento banchetto:

quegli altri due, lanciandosi a fuga, raggiunser le navi.

Ma levò quello il grido di guerra per tutta la rocca;

e d’ogni banda, a mille a mille i Lestrígoni prodi

corsero lutti; e giganti, non gente sembravan mortale.

E da le rupi, con massi che niun uomo avrebbe levati,

ci lapidarono; e surse da tutte le navi un frastuono

d’uomini uccisi, di navi spezzate. E, infilati a le picche

su li portar, come pesci, per farne banchetti nefandi.

Mentre cosí li uccideano fra 1 gorghi del porto profondi,

io, sguainata la spada tagliente che al fianco recavo,

le gómene recisi che il legno teneano alla terra:

quindi ai compagni ingiunsi che, senza indugiare, al remeggio

tutte volgesser le forze, se pure bramavano scampo.

Quelli, temendo la morte, coi remi sferzarono i flutti:

cosí felicemente potè la mia nave sul mare

schivar gli aspri macigni; ma l’altre perirono tutte.

II) Approdo all’isola Eea, patria della Maga Circe

Quindi, col cruccio nel cuore, spingemmo piú oltre la nave,

lieti che in vita eravamo, ma privi dei cari compagni.

Ecco, ed all’isola Eèa giungemmo, ove Circe abitava.

Circe dai riccioli belli, la Diva possente canora,

ch’era sorella d’Eèta, signore di mente feroce.

Erano entrambi nati dal Sole che illumina il mondo:

fu madre loro Perse, di Perse fu Ocèano padre.

Qui, su la spiaggia del mare spingemmo in silenzio la nave,

dentro un sicuro porto: ché un Dio sopraggiunse a guidarci:

qui, dalla nave usciti, due giorni giacemmo e due notti:

che ci rodeva il cuore stanchezza commista a cordoglio.

Quando la terza giornata, però, l’alba ricciola schiuse,

io, la zagaglia presa con me. preso il ferro affilato,

velocemente mossi dal legno, a scoprire d’intorno

se mai tracce vedessi di campi, se udissi una voce.

E sopra un’alta asceso vedetta di rupi, ivi stetti;

ed ampie strade scorsi di là, vidi un fumo levarsi

dalla dimora di Circe, tra dense boscaglie e tra selve.

­­­­­­­­­­­­­­­Súbito ch’ebbi visto quel fumo con quelle faville,

prima l’idea mi venne d’andare, di chieder novelle;

ma, ripensandoci poi, mi parve che meglio sarebbe

ch’io prima andassi al legno veloce, e a la riva del mare,

cibassi i miei compagni, li mandassi a chieder novelle.

Or, quando giunto ero già vicino alla rapida nave,

solo coi tristi pensieri, di me compassione ebbe un Nume,

che su la stessa mia strada sospinse un cornigero cervo,

grande, che al fiume scendeva, dai paschi silvestri, per bere,

come l’aveva sospinto la furia cocente del Sole.

Proprio mentre egli usciva, nel mezzo del dorso, alla spina

io lo colpii: lo passò la zagaglia di bronzo fuor fuori.

Giú nella polvere cadde mugghiando, volò via lo spirto:

puntai sul corpo il piede, fuor trassi la picca di bronzo

dalla ferita, e a terra depostolo, qui lo lasciai.

Vimini poscia divelsi con flessili arbusti, e ad intreccio

composta ebbi una fune, ben bene ritorta ai due capi,

lunga tre braccia; e i piedi ne avvinsi alla fiera gigante;

e su la nuca in tal guisa portandola, al negro mio legno

mossi, appoggiato alla lancia; ché reggerla sopra una spalla

con una mano, non era possibile: troppo era grossa.

E la gittai dinanzi la nave, e i compagni riscossi,

a tutti, uno per uno, volgendo soavi parole:

«Amici miei, per quanto si soffra, discendere all’Ade

noi non dovremo, prima che il giorno fatale sia giunto.

Su, finché nella nave rimangono cibi e bevande,

non trascuriamo il vitto, non diamoci vinti alla fame!»

Dissi. Né furono quelli ritrosi a seguire i miei detti.

Via dalla testa i mantelli rimossi, sul lido del mare

meravigliaron del cervo: ché immane era proprio la fiera.

Quando poi d’ammirarlo fúr sazie le loro pupille,

terse dapprima le mani, ne fecero opimo banchetto.

E tutto il dí, sin che il Sole non fu tramontato nel mare,

quivi in gran copia cibammo le carni ed il vino soave.

Poi, quando il sole s’immerse nell’onde, e la tenebra giunse,

ci coricammo a dormire sovressa la spiaggia del mare.

Quando poi l’alba appari mattiniera, ch’à dita di rose,

tutti a concione i compagni raccolti, cosí favellai:

«Amici, qui non si sa da che parte sia l’alba e il tramonto,

né da che parte il Sole fulgente discende sotterra,

né da che parte sorge. Su via, consigliamoci presto,

se c’è da prender qualche partito, sebbene io non credo:

ché sopra un’alta asceso vedetta di rupi, ho veduto

l’isola; e il pelago tutto d’intorno la stringe e ghirlanda;

essa proclive è tutta; e proprio nel mezzo ho veduto

alto levarsi un fumo fra dense boscaglie e fra selve».

Questo io lor dissi. E quelli spezzare s’intesero il cuore,

ché tutti ancor le gesta d’Antifate aveano presenti,

e del Ciclope feroce cannibale gli orridi scempi;

e acuti alzavano urli, versavano lagrime amare:

ma che vantaggio mai traevan dai gridi e dal pianto?

Storia_di_Ulisse _di_Pellegrino_Tibaldi_in_Palazzo_Poggi_(Bologna)_Autore Camerino Farnese

Storia_di_Ulisse _di_Pellegrino_Tibaldi_in_Palazzo_Poggi_(Bologna)_Autore Camerino Farnese

Giammai l’uomo-massa avrebbe fatto ricorso a qualcosa fuori di se stesso, se la circostanza non ve lo avesse forzato violentemente. Siccome adesso la circostanza non l’obbliga, l’eterno uomo-massa, conseguentemente alla sua indole, cessa di ricorrere ad altri e si sente sovrano della sua vita. Invece, l’uomo scelto o eccellente è costituito da un’intima necessità di appellarsi continuamente a una norma posta al di là di sé stesso, superiore a lui, al cui servizio si pone liberamente. Si ricordi che all’inizio di questo paragrafo distinguemmo l’uomo eccellente dall’uomo volgare, dicendo che il primo è colui che esige molto da se stesso, e quest’ultimo colui che non esige nulla, ma si contenta di ciò che è, e rimane ammirato di se stesso (Ortega y Gasset:” La ribellione delle masse”).

 

Colonizzazione Greca in Occidente IV sec avanti Cristo

Colonizzazione Greca in Occidente IV sec avanti Cristo

 

  Nelle vicende dell’Odissea, spesso Ulisse compie azioni non solidali con i propri compagni. Ad esempio, subito dopo l’approdo nell’isola di Lamo, patria di Antipate, re degli antropofagi Lestrigoni, Ulisse ormeggia la propria nave in un posto defilato rispetto a quelle dei compagni. In questo modo, egli può salvare la propria nave, sé stesso e il proprio equipaggio, mentre tutte le altre navi, e i rispettivi equipaggi, sono annientati.
Il comportamento di Ulisse si spiega e si giustifica in termini militari: 1) il comportamento di Ulisse è di tipo militare:se il Comandante perisce, perisce tutta la truppa a lui affidata; 2) il pensiero classico, e quindi anche quello greco, è un pensiero “verticale”, mentre quello moderno-contemporaneo è un pensiero “orizzontale”. Torneremo su questo aspetto ermeneutico delle vicende di Ulisse, aspetto di cui si occuparono anche i Filosofi della Scuola di Francoforte (
http://www.treccani.it/enciclopedia/scuola-di-francoforte_%28Dizionario-di-filosofia%29/).

 

 Anfora raffigurante Scilla e Cariddi (Museo del Louvre,Parigi)

Anfora raffigurante Scilla e Cariddi (Museo del Louvre,Parigi)

Fine Seconda Parte (Continua)

 

 

 

Qui di seguito ci sono i riferimenti per consultare i testi citati nel nostro articolo.

1) La versione utilizzata è quella di Ettore Romagnolihttps://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Romagnoli)
2) Qui si trova il testo in Greco del X Canto dell’Odissea di Omero: Odissea-Canto X (in Greco) http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/testi/Homerus/Odyssea10.htm

3)Un’altra traduzione traduzione dell’Odissea, quella di Niccolò Delvinotti https://www.liberliber.it/mediateca/libri/h/homerus/odissea_traduzione_delvinotti/pdf/homerus_odissea.pdf

4) Dante Alighieri parla di Ulisse nella Cantica dell’Inferno , nel XXVI Canto, il canto dei “Consiglieri Fraudolenti” https://www.liberliber.it/mediateca/libri/a/alighieri/la_divina_commedia/pdf/la_div_p.pdf).

 

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