Tacito è con noi (8)
Dopo l’articolo (http://www.ilgrandeinquisitore.it/2018/05/tacito-e-con-noi-7/ ) sull’usura, e sui provvedimenti che Tiberio Cesare prese per combatterla, continua la serie di articoli sulla Congiura dei Pisoni (anno 65 d.C.). Dal link sopra riportato, si può a ritroso risalire a tutti gli articoli pubblicati col titolo “Tacito è con noi”.
Riassunto delle puntate precedenti: Pisone, alla vigilia del giorno fatidico, va a casa, fa testamento, con donativi vari a schiavi e liberti. Quindi dice al liberto Milico tutto sulla Congiura. Milico, per paura di Nerone, e per lucrarne un premio, si fa ricevere dall’Imperatore, e denuncia tutti. La vendetta di Nerone è spietata, terribile, e sanguinosissima.
[56] Ergo accitur Natalis, et diversi interrogantur, quisnam is sermo, qua de re fuisset. tum exorta suspicio, quia non congruentia responderant, inditaque vincla. et tormentorum adspectum ac minas non tulere: prior tamen Natalis, totius conspirationis magis gnarus, simul arguendi peritior, de Pisone primum fatetur, deinde adicit Annaeum Senecam, sive internuntius inter eum Pisonemque fuit, sive ut Neronis gratiam pararet, qui infensus Senecae omnes ad eum opprimendum artes conquirebat. tum cognito Natalis indicio Scaevinus quoque pari imbecillitate, an cuncta iam patefacta credens nec ullum silentii emolumentum, edidit ceteros. ex quibus Lucanus Quintianusque et Senecio diu abnuere: post promissa impunitate corrupti, quo tarditatem excusarent, Lucanus Aciliam matrem suam, Quintianus Glitium Gallum, Senecio Annium Pollionem, amicorum praecipuos, nominavere.
Quindi si convoca Natale, e sono interrogati separatamente, quale fosse fosse stato quel colloquio, e quale ne fosse stato l’argomento. Allora nacque il sospetto, perché quelli non rispondevano in maniera congrua, e furono messi ai ceppi. Non sopportarono la vista degli strumenti di tortura e alle minacce. Il primo fu Natale, più informato su tutta la congiura, e più esperto sugli interrogatorî, che rivelò il nome di Pisone, e quindi aggiunse quello di Anneo Seneca, sia che questi avesse fatto da intermediario tra lui e Pisone, sia perché voleva ingraziarsi Nerone, che -odiando Seneca- stava cercando in tutti i modi di eliminarlo. Allora, conosciute le confessioni di Natale, Scevino fece altri nomi, sia per una codardia pari a quell’altro, sia perché – pensando che tutto fosse stato scoperto- non vedeva alcun vantaggio nel tacere. Degli accusati: Lucano, Quinziano e Senecione a lungo negarono, quindi furono corrotti dalla promessa dell’impunità. Lucano, per farsi perdonare il ritardo nella confessione, denunciò la propria madre Acilia; Quinziano e Senecione, gli amici più intimi: il primo, Glizio Gallo; il secondo, Annio Pollione.
[57] Atque interim Nero recordatus Volusii Proculi indico Epicharin attineri ratusque muliebre corpus impar dolori tormentis dilacerari iubet. at illam non verbera, non ignes, non ira eo acrius torquentium, ne a femina spernerentur, pervicere, quin obiecta denegaret. sic primus quaestionis dies contemptus. postero cum ad eosdem cruciatus retraheretur gestamine sellae (nam dissolutis membris insistere nequibat), vinclo fasciae, quam pectori detraxerat, in modum laquei ad arcum sellae restricto indidit cervicem et corporis pondere conisa tenuem iam spiritum expressit, clariore exemplo libertina mulier in tanta necessitate alienos ac prope ignotos protegendo, cum ingenui et viri et equites Romani senatoresque intacti tormentis carissima suorum quisque pignorum proderent.
Intanto, Nerone ricordatosi di Volusio Proculo, per colpa del quale Epicari era ancora in carcere, e convinto che un corpo di donna non avrebbe mai resistito alle sofferenze, ordina di torturarla. Ma né le sferzate, né il fuoco, né la furia dei torturatori, che con più accanimento la tormentavano per non essere giocati da una donna, la indussero a cedere. Così, lei superò la prima giornata di tortura. Il giorno dopo, mentre veniva condotta ai medesimi supplici, su una sedia portatile (perché non riusciva a reggersi in piedi, sulle articolazioni spaccate), si tolse la fascia, che le cingeva il petto e, fissatala ad arco alla spalliera della sedia, vi mise dentro la testa: facendo forza con tutto il peso del corpo, esalò il già affievolito spirito. Gesto tanto più ammirevole in una donna, in una liberta, che nel momento della necessità cercava di salvare degli estranei e quasi degli sconosciuti, mentre uomini liberi, cavalieri e senatori romani, non torturati, si mettevano a tradire le persone a loro più care.
[58] Non enim omittebant Lucanus quoque et Senecio et Quintianus passim conscios edere, magis magisque pavido Nerone, quamquam multiplicatis excubiis semet saepsisset. quin et urbem per manipulos occupatis moenibus, insesso etiam mari et amne, velut in custodiam dedit. volitabantque per fora, per domos, rura quoque et proxima municipiorum pedites equitesque, permixti Germanis, quibus fidebat princeps quasi externis. continua hinc et vincta agmina trahi ac foribus hortorum adiacere. atque ubi dicendam ad causam introissent, [non stud]ia tantum erga coniuratos, sed fortuitus sermo et subiti occursus, si convivium, si spectaculum simul inissent, pro crimine accipi, cum super Neronis ac Tigellini saevas percunctationes Faenius quoque Rufus violenter urgueret, nondum ab indicibus nominatus et quo fidem inscitiae pararet, atrox adversus socios. idem Subrio Flavo adsistenti adnuentique, an inter ipsam cognitionem destringeret gladium caedemque patraret, renuit infregitque impetum iam manum ad capulum referentis.
Neanche Lucano-infatti- e Senecione e Quinziano si sottrassero alla denuncia, alla rinfusa, dei complici, mentre -sempre di più- Nerone era preso dalla paura , anche se aveva moltiplicato le sentinelle intorno a sé. Occupate le mura dai manipoli, sorvegliati il mare e il litorale marittimo, Roma stessa fu come imprigionata. Nelle piazze, nelle case, nella campagna e nei municipi volteggiavano fanti e cavalieri, frammisti a Germani, di cui l’Imperatore si fidava, in quanto forestieri. Schiere ininterrotte di arrestati venivano trascinati e si accumulavano in attesa all’ingresso dei giardini. Introdotti a giudizio, li si incolpava di tutto: della simpatia verso i congiurati, di un colloquio fortuito, di un incontro non premeditato, di essere andati a un pranzo o a uno spettacolo. Infatti, c’erano gli interrogatorî spietati condotti da Nerone e da Tigellino, e Fenio-non ancora denunciato dai delatori e accanito contro i complici- affinché fosse resa evidente la sua estraneità. E quando Subrio Flavo, che era presente, gli chiese -con un cenno del capo- se dovesse estrarre la spada e compiere lì la strage-nel corso dell’istruttoria- rispose con un cenno negativo, e fermò il gesto di lui, che già stava portando la mano all’impugnatura.
Fine Ottava Parte
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