“Maestro e Margherita”
Capitolo 26
Prima Parte
Первая часть
Qui inizia il testo del capitolo 26°, tradotto dal Russo in Italiano, con la collaborazione amichevole della Dottoressa Olga Kazantseva. I precedenti articoli della serie sono rintracciabili cliccando qui. .
Forse fu anche quel crepuscolo, la causa per cui l’aspetto esteriore del procuratore cambiò bruscamente. Divenne come improvvisamente invecchiato: si era ingobbito e inoltre era molto preoccupato. A un certo punto si guardò intorno, per una qualche ragione sobbalzò e gettò uno sguardo alla poltrona vuota, sul retro della quale stava un mantello. La notte della festa si era avvicinata, i vespri bui scintillavano in maniera speciale e, forse, allo stanco Procuratore sembrò che qualcuno sedesse sulla poltrona vuota. Si fece vincere dalla paura e, dopo aver agitato il mantello, il Procuratore lo abbandonò e cominciò a muoversi sul balcone, un po’ fregandosi le mani, un po’ avvicinandosi al tavolo, per poi stringere un calice tra le mani. Poi si fermava, e cominciava a fissare in modo assurdo il mosaico del pavimento, come se si stesse sforzando di leggervi qualcosa. Quel giorno, per la seconda volta, l’ansia lo aveva bruciato. Si strofinò la tempia, da cui era sparito il terribile mal di testa del mattino, il Procuratore si sforzò di capire il motivo delle proprie sofferenze spirituali. Lo capì subito, ma tentò di mentire a se stesso. Capì che quel giorno si era lasciata sfuggire un’occasione che non gli si sarebbe presentata mai più. Perciò cercava di rimediare con piccole e insignificanti azioni, ma era tardi.
L’inganno vero e proprio consisteva nel fatto che il Procuratore cercava di convincere se stesso che le azioni delle sera non erano meno importanti della condanna della mattina. Ma non era certo facile, per il Procuratore, convincersi di ciò. Durante uno di questi giri, si fermò, all’improvviso fischiò e in risposta al fischio, nel buio del crepuscolo, cominciò a sentirsi un piccolo latrato e quindi dal giardino balzò fuori un cane gigantesco a pelo grigio, con le orecchie a punta, e con borchie dorate sul collare. “Banga, Banga!” – chiamò debolmente il Procuratore.
Il cane si alzò sulle zampe posteriori, e appoggiò quelle anteriori sulla spalla del padrone, così che a stento poggiava sul pavimento, e lo leccò sulla guancia. Il Procuratore si sedette sulla poltrona; Banga, respirando con frequenza, si sdraiò ai piedi del padrone e in quel momento, la gioa comparve negli occhi del cane : voleva dire che era cessato il temporale, l’unica cosa al mondo di cui quel cane impavido avesse paura; e che era di nuovo lì, vicino a quell’uomo che egli amava, rispettava e su cui più faceva affidamento al mondo, (quell’uomo) sovrano di tutti gli uomini e grazie al quale, lui – il cane – era un essere privilegiato, superiore e straordinario. Quando si fu sdraiato ai suoi piedi, senza neanche guardare al proprio padrone, ma solo guardando verso il giardino su cui intanto era caduta la sera, il cane intuì che al padrone era accaduta una disgrazia. Allora, il cane cambiò posizione, passò di lato, e mise le zampe anteriori e la testa in ginocchio al Procuratore, sporcando le falde del mantello con la sabbia bagnata. Forse gli atteggiamenti di Banga volevano essere di consolazione per il padrone, e di disponibilità ad affrontare la disgrazia insieme a lui. Ed era infatti ciò che lui cercava di esprimere con gli occhi rivolti al padrone e con le orecchie aguzze.
Così tutte e due, il padrone e il cane, amandosi l’un l’altro, accoglievano sul balcone la notte della Festa. In quel momento, l’ospite del Procuratore si trovava impegnato in questioni importanti. Lasciando il piano superiore del giardino di fronte al balcone, egli – dopo la scala – era sceso sulla veranda attigua al giardino, aveva voltato a destra, ed era uscito verso le caserme, collocate nel territorio del Palazzo. In quelle caserme, erano acquartierate le due centurie che erano arrivate con il Procuratore a Gerusalemme per la Festa, ma anche per la segreta protezione del Procuratore. Le centurie erano direttamente agli ordini del Procuratore. L’ospite si fermò un po’ di tempo nelle caserme, non più di dieci minuti, trascorsi i quali, dal cortile della caserma uscirono tre carri, caricati con strumenti da zappatore e con una botte di acqua. I carri accompagnavano 15 uomini con mantelli grigi, a cavallo. I carri e la scorta uscirono dal territorio del Palazzo attraverso l’ingresso posteriore, si diressero verso Ovest, uscirono dalle mura cittadine e si avviarono, attraversando un sentiero, prima verso la strada per Betlemme, e poi verso Nord. I carri giunsero all’incrocio vicino della Porta di Hebron, quindi si mossero verso la strada per Jaffa, lungo la quale – in giornata – era passato il corteo con i condannati a morte. Intanto, si era fatto già buio e, all’orizzonte, era apparsa la luna. Poco dopo che i carri furono partiti, accompagnati dal loro comando, dal territorio del palazzo, a cavallo, partì anche l’ospite del Procuratore che, dopo aver cambiato vestito, aveva indossato un logoro chitone nero. L’ospite non si diresse fuori, ma in città. Dopo un po’, fu possibile vedere che si era avvicinato alla Fortezza Antonina, posta a Nord, in diretta prossimità del Grande Tempio. Anche nella Fortezza, l’ospite si fermò solo per un tempo brevissimo, e subito dopo egli comparve nella Città bassa, nelle sue strade tortuose e piene di confusione. Qui giunse in groppa ad un mulo. Essendo per lui una città conosciuto, l’ospite trovò facilmente la strada che stava cercando. La strada aveva un nome greco, e infatti vi si trovavano alcune botteghe di Greci che vi vendevano tappeti. Proprio vicino a quella bottega, l’ospite fermò il mulo, scese, e poi lo legò a un gancio sul portone. La bottega era già chiusa. L’ospite entrò attraverso il cancello, dopo essersi avvicinato all’ingresso della bottega, quindi raggiunse un piccolo cortiletto quadrato, con una baracca arredata come una stanza. Svoltando dall’angolo nel cortile, l’ospite arrivò al terrazzo della casa, che era in pietra, ed era abitato. Esso avvolto dall’edera. L’ospite si guardò attorno. Nella casa e nella baracca c’era buio, perché non erano ancora accese le luci. L’ospite chiamò a bassa voce: “ Nisa!”.
A questo richiamo, una porta cominciò a scricchiolare e nella semi-oscurità della sera, sul terrazzo, comparve una giovane donna, a testa scoperta. Si inchinò sulla ringhiera del terrazzo, scrutando con ansia e cercando di capire chi era arrivato. Quando ebbe riconosciuto il forestiero, cominciò a sorridergli affabilmente, cominciò ad annuire con la testa, e salutò con la mano: “Sei sola?” – a bassa voce, chiese in Greco, Afranio. “ Sono sola” – sussurrò la donna sul terrazzo – “Questa mattina, mio marito è andato a Cesarea” – Subito la donna guardò indietro, verso la porta, e sottovoce aggiunse – “Ma la domestica è in casa” – e fece un gesto, come per dire < Avanti!>. Afranio guardò indietro, ed entrò salendo.
Dopodiché, lui e la donna si nascosero dentro la casa. A casa di quella donna, Afranio rimase davvero poco tempo – forse non più di cinque minuti. Dopodiché, lasciò la casa e la terrazza più in basso, calò il cappuccio sugli occhi e andò in strada. A quell’ora, nelle case, le luci erano già accese, la calca prefestiva era sempre più grande, e Afranio sul proprio mulo si perse nella fiumana di quelli a piedi e di quelli a cavallo. La sua meta successiva era sconosciuta a tutti. Continua