In “Maestro e Margherita”, il capolavoro di Michail Afanas’evič Bulgakov (1891 – 1940),dopo il capitolo II, l’apostolo ed evangelista Matteo, o Levi Matteo, torna nel capitolo XIV. Nel II capitolo, Levi Matteo era stato presentato come un seguace occasionale e solitario di Gesù. Nel capitolo XIV, Levi Matteo ritorna, quando Gesù è già sulla Via Dolorosa, verso la Crocifissione sul Monte Calvo, o Golgota. Bulgakov immagina che Matteo, sconvolto dalla visione delle sofferenze inaudite del Maestro, cerchi di raggiungerlo, per dargli una < morte compassionevole> con un colpo di pugnale: un’azione da sicario: <sica>, infatti, era allora chiamato (in Latino) il coltello che veniva usato allo scopo, da cui il sostantivo <sicario>. La raffigurazione della vicenda, da parte di Bulgakov è potente e originale, ma non ha niente a che fare con i Vangeli, dove l’Incarnazione, la Passione, Morte e Resurrezione di Gesù, Unico Salvatore del Mondo, sono un mistero di Fede, che i Cristiani sono chiamati, non a capire, ma a cui sono solo chiamati a credere. San Paolo aveva sintetizzato questo mistero in un celebre brano dell’< Epistula ad Romanos>, 5:8. “ Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
Chi voglia leggere i due precedenti articoli su “Maestro e Margherita”, pubblicati su questo Blog “ilGrandeInquisitore.it”, e relativi al capitolo II, vada ai link seguenti:
– Capitolo II, Prima parte:: http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1931&action=edit
– Capitolo II, Seconda Parte: http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1952&action=edit
In questo articolo, presentiamo dunque la nostra traduzione in Italiano, dal Russo, del XIV capitolo del libro. L’ introduzione, è tradotta in Russo, dalla Dottoressa Olga Kazantseva, che ha anche corretto il testo della traduzione .
A lei, dunque, un cordiale ringraziamento per la cortese collaborazione. Anche questo articolo, come i due precedenti, è rivolto a quei lettori russi che conoscano, o che vogliano imparare, la lingua italiana.
Buona lettura, dunque, ai lettori Italiani, e ai lettori Russi!
В шедевре Михаила Булгакова (1891 – 1940) «Мастер и Маргарита» после главы II апостол и евангелист Матфей или Левий Матфей возвращается к нам в главе XIV.
Во второй главе Левий Матфей был представлен в качестве случайного и одинокого последователя Иисуса.
В главе XIV Левий Матфей возвращается, когда Иисус направляется к распятию на Лысой горе или Голгофу.
Булгаков описывает как Матфей, наблюдая за невообразимыми страданиями Учителя, пытается добраться до него дабы помочь ему умереть «смертью сострадальческой» при помощи удара ножом: похоже на действия палача. Слово «палач» происходит, на самом деле, от слова «sica», так тогда на латыни называли нож, который использовался палачом.
Описание истории со стороны Булгакова является сильным и оригинальным, но это не имеет ничего общего с Евангелиями, в которых Воплощение, Страсть, Смерть и Воскресение Иисуса Христа – единственного Спасителя мира являются таинством веры, которую христиане призваны не понимать, а призваны в него верить.
Святой Павел сформулировал это таинство в известном эпизоде «Epistula ad Romanos» 5:8: «Бог же проявляет свою любовь к нам потому, что когда мы были еще грешниками, Христос умер за нас».
Желающие прочесть предыдущие две статьи о «Мастере и Маргарите», опубликованные на этом блоге «ilGrandeInquisitore.it» и относящиеся к главе II, могут перейти по следующей ссылке:
Глава II, Первая часть: http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1931&action=edit
– Глава II, Вторая часть:http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1952&action=edit
Таким образом, в этой статье мы представляем наш перевод главы XIV с русского языка на итальянский. Введение переведено на русский язык Ольгой Казанцевой, которая также занималась корректировкой текста перевода. Сердечно благодарю ее сотрудничество.
Эта статья, как и две предыдущих, предназначена для тех русских читателей, которые знают или хотят выучить итальянский язык.
Итак, желаем приятного чтения как итальянским, так и русским читателям!
Il sole era già calato sul Golgota, montagna che era circondata da due blocchi. L’alaria della cavalleria, che a mezzogiorno aveva tagliato la strada al procuratore, al trotto era uscita dalla porta Hebron della città. I fanti della coorte Cappadocia avevano schiacciato da un lato gli assembramenti di persone, muli, e cammelli; mentre l’alaria, trottando e sollevando al cielo bianche colonne di polvere, arrivò a un crocevia, alla confluenza di due strade: una meridionale, diretta a Betfage; e una nord-occidentale, diretta a Jaffa.
Anche i Cappadoci erano stati distribuiti ai bordi della strada e avevano per tempo, cacciato da essa, tutte le carovane che si affrettavano per la festa di Gerusalemme. Le folle dei pellegrini si erano messe dietro i Cappadoci, lasciando le proprie tende a strisce, direttamente sull’erba. Proseguendo per circa un chilometro, l’alaria superò la seconda coorte della legione “Fulminata”, e giunse per prima, avendo percorso un altro chilometro, alle pendici del Monte Calvo: qui smontarono da cavallo.
Il comandante distribuì l’alaria in plotoni, che circondarono tutto lo spazio alla base della non alta montagna, e lasciarono libero un solo accesso: la salita dalla parte della strada di Jaffa. Dopo qualche tempo, la prima coorte dell’alaria giunse sulla collina, prese posizione più in alto, accerchiando la vetta. Alla fine, arrivò la centuria al comando di Marco l’Ammazzatopi. Questa aveva avanzato, allungata in due file ai bordi della strada e, in mezzo alle file, sotto la scorta del servizio segreto, su un carro, andavano i tre condannati, con legni bianchi al collo, su ciascuno dei quali era scritto, in Aramaico e in Greco: “ Bandito e Ribelle”.
Dietro il carro dei condannati, seguivano altri carri, caricati con traverse, corde, pali, secchi, e asce. Su questi altri carri, viaggiavano i sei boia. Dietro di loro, a cavallo, andava Marco il Centurione; il Capo della Guardia del Tempio; e lo stesso uomo incappucciato, con cui Pilato aveva avuto un breve incontro nella camera oscurata del palazzo. La processione si chiudeva con una fila di soldati e, dietro la processione, invece, andavano circa duemila curiosi, incuranti del caldo infernale, e che volevano assistere a uno spettacolo interessante.
A questi curiosi della città, si erano aggiunti successivamente dei pellegrini incuriositi, che spontaneamente si erano accodati al corteo. La colonna era arrivata sul Monte Calvo,al richiamo stentoreo degli araldi; di coloro che avevano accompagnato la colonna; e di coloro che avevano pianto per ciò che, verso mezzogiorno, Pilato aveva proclamato.
L’alaria fece passare tutti nella seconda fila, ma la centuria fece passare in alto, solo quelli che avevano a che fare con l’esecuzione capitale. La centuria, pertanto, facendo una rapida manovra, disperse tutta la folla che si trovava sulla sommità, in modo che la folla si trovasse tra la fanteria accerchiante in alto, e la cavalleria in basso.
Perciò, la folla poté vedere l’esecuzione capitale attraverso l’intervallo nella catena dei fanti. A quel punto, erano passate più di tre ore dall’inizio della processione verso il monte, e il sole già si era abbassato sul Monte Calvo, ma il caldo era ancora feroce, e i soldati di entrambi i blocchi ne avevano sofferto; erano stati assaliti dalla noia e silenziosamente avevano maledetto i tre condannati, augurando loro, di tutto cuore, una morte dolorosissima. Il piccolo comandante dell’alaria, con la fronte sudata e con la bianca camicia che, per il sudore, era diventata scura sulla schiena, trovandosi sotto la cima, vicino al camminamento aperto, ogni tanto si avvicinava al secchio di cuoio nel primo plotone, ne attingeva una manciata d’acqua , beveva, e si bagnava il turbante. Traendo da ciò un qualche sollievo, riprendeva a fare avanti e indietro lungo la strada impolverata, che era la principale per la sommità. La sua lunga spada sbatteva contro lo stivale, che era fatto di pelle allacciata.
Il comandante voleva dare al proprio ufficiale di cavalleria un esempio di resistenza alla fatica ma, per compassione verso i soldati, autorizzò quelli con la lance piantate a terra, ad allestire delle piramidi e di mettervi sopra i mantelli bianchi. Sotto queste capanne, anche i siriani si erano sottratti al sole spietato. I secchi si vuotavano rapidamente, e i cavalieri dai vari plotoni, in fila, andavano a turno a prendere l’acqua nel dirupo della montagna dove, alla debole ombra di radi di radi alberi di gelsi, un ruscello un po’ torbido era riuscito a sopravvivere in questo caldo infernale. Lì stavano in piedi, seguendo l’ombra instabile e morivano di noia, i guardiani di cavalli, che tenevano per le redini, i loro cavalli fattisi docili. La noia dei soldati e le loro imprecazioni contro i condannati erano comprensibili. Il timore del procuratore riguardo ai disordini, che sarebbero potuti esplodere al momento della condanna capitale, nella da lui odiata città di Gerusalemme, non si erano verificati, per fortuna. Ma, quando cominciò a trascorrere la quarta ora dopo la condanna, tra le due file, quella superiore, della fanteria; e quella alle pendici, della cavalleria, contrariamente a tutte le attese, non era rimasto neanche un uomo. Il sole aveva bruciato la folla, e l’aveva spinta indietro verso Gerusalemme.
Dietro le due centurie romane, erano rimasti solo due cani, dei quali nessuno sapeva di chi fossero e perché fossero lì. Ma l’afa aveva colpito anche loro, che infatti si erano sdraiati con le lingue penzoloni, respirando a fatica, e senza prestare alcuna attenzione alle lucertole dal doso verde, striscianti sul terreno, unici esseri viventi a non patire il sole, e a muoversi nelle strade roventi, e tra le specie di piante rampicanti, piante che erano coperte dal suolo con enormi aculei. Nessuno aveva tentato di liberare i prigionieri, né in Gerusalemme, stipata di truppe; né qui, sulla collina presidiata; e la moltitudine era tornata in città, perché in realtà non era rimasto interesse alcuno alla condanna capitale, mentre in città erano già cominciato i preparativi per la prossima Festa della Grande Pasqua, che sarebbe cominciata la sera.
La fanteria romana nella seconda fila soffriva molto di più dei cavalieri. L’Ammazzatopi aveva permesso ai soldati soltanto di togliersi gli elmi, e di coprirsi con delle bende bianche, imbevute d’acqua, ma li aveva fatti restare in piedi, e con le lance in mano. Egli stesso, con una fascia simile, non bagnata, ma asciutta, andava avanti e indietro a poca distanza dal gruppo dei boia, senza neanche togliere dalla propria tunica i fregi sovrapposti di leoni argentati; né il coltello, o la spada, o il pugnale. Il sole era a perpendicolo sul centurione, ma non gli recava alcun fastidio; però era impossibile guardare le teste di leone: lo splendore abbagliante irritava gli occhi, come se l’argento bollisse al sole. Sul volto sfregiato dell’Ammazzatopi non erano comparsi né malcontento, né stanchezza, anzi sembrava che il centurione gigante fosse in grado di camminare giorno e notte, e un giorno ancora, tanto quanto sarebbe stato necessario. Egli sembrava capace di camminare così, le mani sulla pesante cintura con le borchie di rame; guardando severamente ora i pali con i condannati, ora i soldati in fila; respingendo con indifferenza, con la punta dello stivale peloso, ossa umane imbiancate dal tempo; o frammenti di felce che gli capitavano tra i piedi.
L’uomo incappucciato si era sistemato poco lontano dai pali, su uno sgabello a tre piedi, e immobile sedeva con un atteggiamento benevolo. Egli, ogni tanto, per scacciare la noia, ficcava un ramoscello nella sabbia. Si era detto che, dietro il cordone dei legionari non c’era nessuno, ma non è proprio così. C’era un uomo, ma non da tutti visibile. Egli aveva preso posto, non nel lato dove la salita al monte era aperta, e attraverso cui era più agevole seguire l’esecuzione capitale; ma in un punto settentrionale, dove la collina non aveva pendenza e dunque era accessibile, ma irregolare. Lì, tra burroni e crepacci, cercava di sopravvivere un fico nano malato, dopo essersi avvinghiato, sul crepaccio, alla terra maledetta.
Proprio sotto quell’albero, che non dava la minima ombra,, si era piazzato quell’unico spettatore, ma non partecipante all’esecuzione capitale, e si era seduto su un sasso, proprio dall’inizio, cioè da più di tre ore. In effetti, egli, per vedere l’esecuzione, aveva scelto non la posizione migliore, ma la peggiore. Ma anche da essa, si vedevano i pali, si vedevano, oltre gli sbarramenti, anche le due macchie luccicanti sul petto del centurione e ciò, per un uomo che aveva chiaramente cercato di non essere notato e di non essere disturbato da alcuno, era più che sufficiente. Ma circa quattro prima, all’inizio della condanna, quest’uomo si era comportato del tutto diversamente e avrebbe potuto benissimo essere visto.
Perciò egli aveva prima mutato il proprio atteggiamento ed era rimasto solo. Soltanto quando il corteo aveva raggiunto la cima, oltre lo sbarramento, anch’egli era comparso per la prima volta, e per giunta come uno arrivato in ritardo. Egli respirava a fatica e non camminava, ma correva, sulla collina; spingeva e, vedendo che davanti a lui, come davanti a tutti gli altri, lo sbarramento si restringeva, fece un tentativo ingenuo, fingendo di non capire i richiami irritati, di aprirsi la strada fra i soldati, verso il luogo stesso dell’esecuzione, dove già avevano tirati i condannati giù dal carro. Perciò, egli ricevette un violento colpo con la punta smussa sul petto, e rimbalzò sui soldati, lanciando un grido, non di dolore, ma di disperazione. Al legionario che l’aveva colpito, egli lanciò uno sguardo ostile e assolutamente indifferente a tutto, come se fosse insensibile al dolore fisico. Tossendo e respirando affannosamente, con la mano accostata al petto, corse intorno alla sommità della collina, cercando di trovare, nel bordo settentrionale, un qualche varco nello sbarramento, attraverso cui potersi infilare. Ma ormai era tardi: il cerchio si era chiuso. E l’uomo, con il viso sfigurato dal dolore, fu costretto a rinunciare ai propri tentativi di farsi strada verso i carri dai quali avevano tirato giù i pali.
Quei tentativi non avrebbero portato ad altro che ad essere arrestato. Ma essere arrestato, quel giorno non rientrava nei suoi piani. E allora egli se ne andò sul bordo, dove c’era il crepaccio; vi rimase tranquillo, e nessuno lo importunò. Allora, seduto su uno sasso, quest’uomo con la barba nera, gli occhi malati per il sole e l’insonnia, provava angoscia; un po’ sospirava aprendo il talef, logoro per i pellegrinaggi, diventato da azzurro, grigio sporco e scopriva il proprio petto colpito dalla lancia e sul quale cadeva un sudore sporco. Dopo, in un tormento indicibile, alzava gli occhi al cielo e osservava gli avvoltoi, che già da un pezzo stavano descrivendo in alto ampi cerchi, nel presentimento del banchetto imminente; quindi fissava uno sguardo disperato sulla terra gialla e vi scorgeva il cranio di un cane mezzo distrutto, verso cui le lucertole accorrevano. I tormenti di quell’uomo erano così grandi che, a volte, parlava a voce alta a se stesso.
“Oh, sono un imbecille!” –
– mormorava, vacillando sul sasso, con l’angoscia nell’anima, e graffiando con le unghie il petto olivastro –
“Sono un imbecille, una donnicciola stolta, un codardo ! Non sono un uomo, sono una carogna!”.
Tacque, piegò la testa e dopo, bevendo dell’acqua calda da una borraccia di legno; si riscosse nuovamente; si aggrappò a un coltello, nascosto nel talef, sul petto; dopo afferrò un pezzo di pergamena che si trovava di fronte a lui, su un sasso, vicino ad una bacchetta e ad una boccetta d’inchiostro. Sulla pergamena erano stati scritti in fretta degli appunti:< Passano i minuti e io, Levi Matteo, mi trovo sul Monte Calvo, ma la morte ancora non c’è!>. Più avanti:
< Il sole declina, ma la morte ancora non arriva>.
Dopo, Levi Matteo, con disperazione, prese questi appunti con un bastoncino appuntito :
< Dio, perché sei collera con Lui? Fa’ che muoia!>
Dopo aver scritto queste parole, senza lasciare tracce, singhiozzò senza lacrime, e di nuovo si ferì il torace con le unghie. La ragione della disperazione di Levi consisteva nel fallimento terribile che aveva colpito Gesù e lui e, a parte ciò, nel grande errore che Levi pensava di aver fatto. Due giorni prima, Gesù e Levi si trovavano a Betfage, vicino Gerusalemme, dove erano stati ospitati da un ortolano, a cui erano straordinariamente piaciute le prediche di Gesù. Per tutta la mattina, i due ospiti avevano lavorato nell’orto, aiutando il proprietario e si erano preparati ad andare a Gerusalemme, col fresco. Ma Gesù, chissà perché, cominciava ad aver fretta, diceva che in città aveva un aveva un affare urgente, e verso mezzogiorno se ne andò da solo. E questo era stato il primo errore di Levi Matteo.
Perché, perché l’aveva lasciato andar solo?
Alla sera, a Matteo era risultato impossibile raggiungere Gerusalemme: una specie di malattia improvvisa l’aveva colpito; il suo corpo aveva cominciato a tremare ; era stato invaso da un fuoco; aveva cominciato a battere i denti e in continuazione aveva cominciato a chiedere di bere: non poteva muoversi. Si era buttato su una gualdrappa nel capanno dell’ortolano, e vi era rimasto fino all’alba del venerdì, quando il morbo lasciò Levi rapidamente come rapidamente l’aveva attaccato. Benché fosse ancora debole e con le gambe malferme, tormentato dal presentimento della sciagura, disse addio al padrone e se ne andò a Gerusalemme. Lì apprese che il suo presentimento non era stato fallace: la sciagura era avvenuta. Levi era in mezzo alla folla e apprendeva che il procuratore aveva pronunciato la condanna. Quando portarono i condannati sulla montagna, Levi Matteo corse vicino alla colona, tra la folle dei curiosi, cercando, senza farsi vedere, di far sapere a Gesù che almeno lui, Levi, era lì con Lui, che non lo aveva abbandonato nell’ultimo viaggio, e che pregava affinché la morte di Gesù arrivasse al più presto possibile. Ma Gesù, che guardava avanti, dove lo stavano portando, sicuramente non si era accorto di lui. Poi, quando la processione ebbe percorso circa mezzo chilometro lunga la strada, a Matteo, che avevano spinto tra la folla accanto alla stessa fila, balenò in mente un’idea semplice e geniale, e si rimproverò di non averci pensato prima. I soldati non procedevano in una fila stretta, ma in mezzo a loro c’erano dei vuoti. Con un calcolo esatto, e chinandosi, era possibile piombare tra due legionari, balzare fino al carro, e saltarvi su. Allora Gesù sarebbe stato salvato dalle sofferenze. Bastava un attimo per colpire Gesù con un coltello nella schiena, gridandogli:
< Gesù, ti salvo e me ne vengo con Te. Sono io, Matteo, il tuo fedele ed unico discepolo!> Se Dio avesse benedetto anche questo unico istante, sarebbe stato possibile fare in tempo anche a dare la morte a se stesso, evitando quella sul palo. Del resto, l’ultima cosa interessava poco Levi, che era un ex esattore delle tasse, e quindi morire gli era indifferente. Egli voleva soltanto che a Gesù, che nella propria vita non aveva mai fatto male ad alcuno, fosse risparmiata la tortura. Il piano era stato congegnato bene, ma il guaio era che Levi non aveva con sé il coltello, né il denaro per comprarlo. Con rabbia contro se stesso, Levi uscì dalla folla, e tornò indietro in città. Nella sua testa febbrile un solo pensiero ossessivo dominava: procurarsi subito, in città, con qualsiasi mezzo, il coltello e tornare alla processione. Giunse correndo alle porte di Gerusalemme, sgusciando nella folla delle carovane giunte in città, e vide, alla propria sinistra, un negozio dove si vendeva il pane. Il respiro era pesante per la corsa sulla strada arroventata. Levi si controllò, entrò molto compostamente nella botteguccia, salutò la padrona ritta al banco di vendita, le chiese di prendere una pagnotta dal mobiletto in alto, che per una qualche ragione gli piaceva più degli altri e, quando lei si fu girata, furtivamente prese dal bancone una cosa che meglio non poteva essere: un lungo coltello da pane, affilato come il rasoio, e si precipitò fuori dal negozio. Subito dopo egli fu di nuovo sulla strada per Jaffa, ma il corteo era già passato. Si rimise a correre. A volte gli capitava di cadere addirittura, e di giacere immobile senza farsi vedere, per riprendere fiato. Così restava, provocando lo stupore di quelli che passavano sul mulo, o andavano a piedi verso Gerusalemme. Rimaneva disteso, sentendo come il cuore gli batteva nel petto, ma anche nelle orecchie e nella testa. Dopo aver un po’ ripreso fiato, si alzò di scatto e si rimise a correre, ma sempre più lentamente. Ma quando infine vide la lunga processione che in lontananza sollevava polvere, essa era già ai piedi della collina.
“O Dio!…” –
– gemette Levi, capendo di essere arrivato tardi. Ed era tardi. Quando fu spirata la quarta ora dalla condanna, i tormenti di Levi avevano raggiunto il grado più alto, ed egli fu preso dalla rabbia. Alzatosi dalla pietra, gettò a terra il coltello che egli capì di aver prima rubato invano; schiacciò la borraccia con il piede, privandosi dell’acqua; tolse la kefia dalla testa, si afferrò i radi capelli e cominciò a maledire se stesso. Egli si maledisse, pronunciando parole insensate; sbraitò; sputò; insultò il proprio padre e la propria madre per aver generato uno stupido. Vedendo che i giuramenti e le imprecazioni non funzionavano, e che niente era cambiato in questo sole ardente, strinse i pugni secchi, socchiuse gli occhi, sollevandoli al cielo e al sole che, allontanandosi, scivolava sempre più in basso per cadere nel Mediterraneo, e chiese a Dio un miracolo immediato. Chiese che Dio mandasse subito la morte a Gesù. Quando aprì gli occhi, vide che nulla era mutato sulla collina, ad eccezione delle macchie fiammeggianti sul petto del centurione, che si erano spente. Il sole illuminava la schiena dei condannati, che avevano le facce rivolte a Gerusalemme. Allora Levi mandò un grido:
“ Ti maledico, Dio!”.
Con voce arrochita, gridava di essersi accorto dell’ingiustizia di Dio, e che non voleva più credere in Lui. “ Tu sei sordo” –
– sbraitava Levi –
– se tu non lo fossi, mi avresti ascoltato, e lo avresti già fatto morire” .
Socchiudendo gli occhi, Levi aspettava il fuoco che cade del cielo e colpisce Levi. Ciò non accadde, e Levi, senza aprire le palpebre, continuava a scagliare contro il cielo parole caustiche e offensive. Egli gridava, con tutto il proprio disincanto, che esistevano altri dei e altre religioni. Sì, un altro dio non avrebbe permesso ciò, mai lo avrebbe permesso: mai avrebbe permesso che un uomo come Gesù fosse bruciato al sole sulla colonna.
“ Io ho sbagliato! “ –
– gridò Levi, completamente rauco –
“ Tu sei il dio del male! Oppure i tuoi occhi sono chiusi dal fumo dell’incensiere del tempio, e le tue orecchie hanno cessato di udire, a parte i suoni delle trombe dei sacerdoti? Tu non sei un dio onnipotente, sei un dio perfido. Io ti maledico, dio dei delinquenti, loro protettore e loro anima!”.
Allora qualcosa soffiò sul viso del vecchio esattore e qualcosa cominciò a frusciare sotto i suoi piedi. Soffiò ancora una volta, e allora Levi, dopo aver aperto gli occhi, vide che, nel mondo, tutto era cambiato, a causa forse delle sue imprecazioni; forse per la forza di altre cause. Il sole era scomparso, non arrivando al mare, sul quale tramontava tutte le sere. L’aveva inghiottito una nuvola temporalesca, che era sorta in cielo da occidente, minacciosa e improvvisa. I suoi lembi già ribollivano di una schiuma bianca, e il nero ventre fumoso diventava giallo. La nuvola rumoreggiava e da essa, di tanto in tanto, cadevano fili di fuoco. Sulla strada per Jaffa, lungo l’arida strada di Ghihon, sopra le tende dei pellegrini, volavano colonne di polvere, spinte dal vento, che si era alzato all’improvviso. Levi smise di parlare, cercando di capire se il temporale, che in quel momento stava coprendo Gerusalemme, avrebbe portato qualche cambiamento nel destino infelice di Gesù. E subito, guardano ai lampi guizzanti che avevano squarciato la nuvola, iniziò a chiedere che un fulmine colpisse il palo di Gesù. Pentito guardava il cielo terso, che la nuvola aveva inghiottito e dove gli avvoltoi volteggiavano sulle ali, per sfuggire al temporale. Levi pensò di essere andato follemente incontro alla propria maledizione: dopo, Dio non lo avrebbe più ascoltato. Volgendo lo sguardo alla base della collina, Levi guardò fissamente al luogo dove si trovava, dopo essersi sparpagliato, il reggimento di cavalleria; e notò quali grandi mutamenti erano avvenuti. Dall’altezza dove si trovava Levi, si riusciva a vedere bene che i soldati si stavano affaccendando a togliere le lance da terra; indossavano i mantelli; i guardiani dei cavalli correvano al trotto verso la strada, portando per la briglia i cavalli mori.
Il reggimento si stava movendo, questo era chiaro. Levi, difendendosi con la mano dalla polvere che gli investiva il viso, sputando, cercava di capire che cosa ciò significasse. Guardò più in alto, e vide una piccola figura con una clamide militare purpurea che saliva verso il luogo del supplizio. E, per il presentimento di una fine attesa con gioia, il cuore dell’ex pubblicano si era come fermato. Chi saliva sulla collina, alla quinta ora di sofferenza dei banditi, era il comandante della coorte, che arrivava a cavallo da Gerusalemme, accompagnato dall’attendente. La catena dei soldati, a un cenno dell’Ammazzatopi, si aprì, e il centurione rese onore al tribuno, il quale preso da parte il centurione, gli disse qualcosa all’orecchio.
Il centurione, per la seconda volta, gli rese onore e si diresse verso il gruppo dei boia, i quali si erano seduti sulle pietre, alla base dei pali. Il tribuno invece si diresse verso colui che sedeva su uno sgabello a tre gambe, e questi cortesemente venne incontro al tribuno, il quale gli disse qualcosa sottovoce ed entrambi si diressero verso i pali. Li accompagnava il capo delle guardie del tempio.
L’Ammazzatopi, guardando con ripugnanza agli stracci che erano per terra, vicino ai pali, stracci che erano appena stati i vestiti dei delinquenti, che i boia aveva buttato, scelse due dei boia e ordinò:
“Seguitemi!”.
Dal palo più vicino, giungeva una canzonetta lamentevole e insensata. Vi era impiccato Hestas che,verso la fine della terza ora,era uscito di senno a causa delle mosche e del sole, e adesso canticchiava qualcosa a proposito dell’uva; ma ogni tanto scuoteva la testa, coperta dal turbante, e allora le mosche lentamente si allontanavano dal suo viso, per poi ritornarvi. Dismas, sul secondo palo, tra i due, era quello che soffriva di più perché il deliquio non lo aveva stordito ed egli dondolava la testa con ritmica frequenza, a destra e a sinistra, per toccarsi la spalla con l’orecchio. Gesù era più fortunato dei due amici, perché già alla prima ora aveva avuto dei mancamenti e dopo aveva perso i sensi e, piegata la testa, il turbante si era sfilato. Le mosche e i tafani lo avevano perciò completamente coperto, di modo che il suo viso era scomparso sotto una mobile nuvola scura. All’inguine, sull’addome e sotto le ascelle stazionavano grassi tafani, che succhiavano il corpo giallo e nudo. Obbedendo a un gesto dell’uomo incappucciato, uno dei due boia aveva preso una lancia, l’altro era arrivato con un secchio di legno e con una spugna. Il primo boia alzò la lancia e batté prima un braccio e poi l’altro di Gesù, braccia che erano tese e legate alla parte traversa del palo. Il corpo sobbalzò, con le costole che si sollevavano. Il boia spinse la lancia fino in fondo all’addome. Allora Gesù sollevò la testa e le mosche si allontanarono ronzando, e liberarono il viso dell’impiccato, tumefatto per le punture, con gli occhi gonfi e un viso irriconoscibile. Sollevando le sopracciglia, il Nazareno guardò in basso. I suoi occhi, di solito luminosi, erano diventati un po’ opachi.
“ Nazareno!”
– chiese il boia.Il Nazareno mosse le labbra e rispose con una voce rauca da bandito.
“Che ti serve? Perché sei venuto da me?”.
“Bevi!”-
– disse il boia, e la spugna imbevuta d’acqua si alzò sulla punta della lancia fino alle labbra di Gesù. La gioia brillò nei suoi occhi: attaccò la bocca alla spugna e si mise a succhiare avidamente l’acqua. Dal palo vicino giunse la voce di Dismas:
“Ingiustizia, sono un bandito come lui!”.
Dismas si era sforzato, senza però riuscire a muoversi, e le sue mani sulla traversa reggevano tre anelli di corda. Egli tirò dentro l’addome, con le unghie si aggrappò alle estremità della traversa, con la testa girata si rivolse al legno di Gesù, e il rancore ardeva nei suoi occhi.Una nuvola di polvere coprì lo spiazzo e tutto si oscurò. Quando la nuvola fu scomparsa, il centurione gridò:
“Silenzio sul secondo palo!”.
Dismas smise di parlare; Gesù si allontanò dalla spugna e, sforzandosi di far sentire la propria voce in modo carezzevole e persuasivo, senza riuscirvi, chiese al boia:
“Dagli da bere!”.
Tutto diventò ancora più buio. La nuvola, avendo coperto già mezzo cielo, si dirigeva a Gerusalemme. Bianche nuvolette spumeggianti si propagavano davanti alla nuvola nera che, gonfia di pioggia e di fuoco, lampeggiò e tuonò proprio sulla vetta. Il boia tolse la spugna dalla lancia:
“ Gloria all’Eccelso Egemone…!”.
Il sangue gli colò sull’addome, la mandibola ebbe uno scatto, e la sua testa ricadde penzoloni. Dopo il secondo tuono, il boia fece bere Dismas e con le stesse parole:
“ Onore all’Egemone…! –
– e lo uccise. Hestas, fuori di testa, mandò un grido pieno di spavento. Solo il boia si trovava vicino a lui. Ma, quando la spugna ebbe sfiorato le sue labbra, disse qualcosa come fosse un ruggito, e si aggrappò alla spugna con i denti. Dopo pochi attimi, anche il suo corpo cominciò a penzolare, per quanto lo permettevano le corde. L’uomo incappucciato si era messo a seguire il boia e il centurione, e dietro di loro, il responsabile della guardia del tempio. Fermatosi vicino al primo palo, l’incappucciato osservò con attenzione Gesù pieno di sangue, toccò la bianca pianta del piede e disse al collega:
“ E’ morto!”.
La stessa cosa era avvenuta anche per gli altri due legni. Dopo di lui, il tribuno fece un cenno al centurione e, voltatosi, cominciò a dirigersi verso la sommità, con il capo della guardia del tempio e l’uomo incappucciato. Era calato il buio. I lampi solcavano il cielo scuro, dal quale guizzò una fiamma e il grido del centurione:
“ Togliti di dosso la catena…!” –
– si perse nel fragore. I soldati felici si precipitavano a raggiungere la vetta, mettendosi gli elmi. Il buio aveva avvolto Gerusalemme. Un acquazzone si era riversato all’improvviso e aveva colto la centuria a metà strada sulla collina. L’acqua si abbatté così spaventosamente che, mentre i soldati andavano verso il basso, le correnti impetuose li avevano già travolti. I soldati scivolavano e cadevano sull’argilla fradicia, affrettandosi sulla strada in pianura, lungo la quale la cavalleria bagnata in colonna si stava trasferendo a Gerusalemme, a mala pena vedendo attraverso la coltre d’acqua.
Dopo pochi minuti, nel caos fumante del temporale, dell’acqua e del fuoco, sulla vetta era rimasto un solo uomo. Agitando non senza ragione il coltello rubato, scivolando sui gradini sdrucciolevoli, aggrappandosi a ciò che capitava, a tratti cadendo sulle ginocchia, egli cercava di arrivare al palo. Un po’ si trovava nel buio totale, un po’ si illuminava in una luce abbagliante. Essendo riuscito ad arrivare sotto il palo, con la caviglia già affondata nell’acqua, si tolse con uno strappo il taleth appesantito e pieno d’acqua, rimase con la sola camicia, e cadde ai piedi di Gesù. Tagliò le corde sulle tibie, salì sulla sbarra inferiore, abbracciò Gesù e liberò le braccia dai legacci superiori. Il corpo nudo e bagnato di Gesù cadde su Levi e lo scaraventò a terra. Levi voleva caricarlo sulle spalle, ma un qualche pensiero lo fermò. Egli lasciò a terra, nell’acqua, il corpo con capo riverso all’indietro e le braccia abbandonate e si mise a correre sui piedi affondati nella melma argillosa, verso i pali vicini. Tagliò le corde anche a questi e i due corpi stramazzarono a terra. Passò qualche minuto e sulla sommità della collina rimasero solo i due corpi e i tre pali vuoti. L’acqua flagellava e spostava quei corpi. Né Levi né il corpo di Gesù erano più, in quel momento, sulla sommità della collina.