Benvenuto Cellini si trovava a Roma nei giorni tremendi del “Sacco” (6 maggio – 5 giugno, 1527) operato dai Lanzichencchi, al comando di Carlo di Borbone, e inviati da Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero (!). Cellini racconta che in quei giorni si recò a Castel Sant’Angelo, in aiuto a papa Clemente VII, che vi si era rifugiato dopo caotici e imbelli tentennamenti, accompagnato dai 13 cardinali rimasti fedeli. Come è noto, dei 18 cardinali presenti in Roma all’epoca, gli altri 5, fedeli a Carlo V, erano rimasti, incolumi, nei loro palazzi! Il Nostro racconta i fatti con tono ribaldo e un po’ da “miles gloriosus”, ma la sua testimonianza è preziosa, perché coincide con altre (vedi Guicciardini, qui sotto, nel testo) nell’affermare che i Lanzichenecchi assediarono, saccheggiarono, bruciarono, violentarono, distrussero tutto e tutti, in Roma, dopo aver simulato di chiedere al Papa un lasciapassare per raggiunger il Regno di Napoli. Dopo questa atroce menzogna, i Lanzichenecchi fecero ciò che fecero “…crudeli e insolenti, in odio della Chiesa Romana…” (Guicciardini).
In Roma, nessuno pensò alla difesa, e molti scapparono, patteggiarono con gli assassini, e furono ciononostante torturati, assassinati, talora in maniera orribile (arsi vivi).
XXXV.
“…in mentre che io tiravo, a me venne un colpo di artiglieria, il qual dette in un canton di un merlo, e presene tanto, che fu causa di non mi far male: perché quella maggior quantità tutta insieme mi percosse il petto; e, fermatomi l’anelito, istavo in terra prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti dicevano; in fra i quali si doleva molto quel misser Antonio di Santa Crocie, dicendo:
– Oimè, che noi abiàn perso il migliore aiuto che noi ci avessimo -.
Sopragiunto a questo rumore un certo mio compagno, che si domandava Gianfrancesco,piffero, questo uomo era piú inclinato alla medicina che al piffero, e subito piangendo corse per una caraffina di bonissimo vin greco: avendo fatto rovente una tegola, in su la quale e’ messe su una buona menata di assenzio, di poi vi spruzzò su di quel buon vin greco; essendo inbeuto bene il ditto assenzio, subito me lo messe in sul petto, dove evidente si vedeva la percossa. Fu tanto la virtú di quello assenzio, che resemi subito quelle ismarrite virtú.
Volendo cominciare a parlare, non potevo, perché certi sciocchi soldatelli mi avevano pieno la bocca di terra, parendo loro con quella di avermi dato la comunione, con la quale loro più presto mi avevano scomunicato, perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra piú noia assai che la percossa.
Pur di questa scampato, tornai a que’ furori delle artiglierie, seguitandoli con tutta quella virtú e sollecitudine migliore che inmaginar potevo. E perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al duca di Urbino, il quale era con lo esercito de’ Veniziani, dicendo all’imbasciadore, che dicessi a Sua Eccellenzia, che tanto quanto il detto Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in cima di detto Castello, accompagnati con tre colpi di artiglieria rinterzati, che insino che durava questo segno, dimostrava che il Castello non saria areso; io ebbi questa carica di far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che sempre di giorno io le dirizzava in quei luoghi dove le potevan fare qualche gran male; la qual cosa il Papa me ne voleva di meglio assai, perché vedeva che io facevo l’arte con quella avvertenza che a tal cose si promette. Il soccorso de il detto duca mai non venne; per la qual cosa io, che non son qui per questo, altro non descrivo.
XXXVI.
In mentre che io mi stavo su a quel mio diabolico esercizio, mi veniva a vedere alcuni di quelli cardinali che erano in Castello, ma piú ispesso il cardinale Ravenna e il cardinal de’ Gaddi, ai quali io piú volte dissi ch’ei non mi capitassino innanzi, perché quelle lor berrettuccie rosse si scorgevano discosto; il che da que’ palazzi vicini, com’era la Torre de’ Bini, loro e io portavomo pericolo grandissimo; di modo che per utimo io gli feci serrare, e ne acquistai con loro assai nimicizia.
Ancora mi capitava spesso intorno il signor Orazio Baglioni, il quale mi voleva molto bene. Essendo un giorno in fra gli altri ragionando meco, lui vidde certa dimostrazione in una certa osteria, la quale era fuor della porta di Castello, luogo chiamato Baccanello. Questa osteria aveva per insegna un sole dipinto immezzo dua finestre, di color rosso. Essendo chiuse le finestre, giudicò il detto signor Orazio, che al dirimpetto drento di quel sole in fra quelle due finestre fussi una tavolata di soldati a far gozzoviglia; il perché mi disse:
– Benvenuto, s’e’ ti dessi il cuore di dar vicino a quel sole un braccio con questo tuo mezzo cannone, io credo che tu faresti una buona opera, perché colà si sente un gran romore, dove debb’essere uomini di molta importanza -.
Al qual signor io dissi:
– A me basta la vista di dare in mezzo a quel sole –
ma sí bene una botte piena di sassi, ch’era quivi vicina alla bocca di detto cannone, el furore del fuoco e di quel vento che faceva il cannone, l’arebbe mandata atterra. Alla qual cosa il detto signore mi rispose:
– Non mettere tempo in mezzo, Benvenuto: imprima non è possibile che, innel modo che la sta, il vento de il cannone la faccia cadere; ma se pure ella cadessi e vi fussi sotto il Papa, saria manco male che tu non pensi, sicché tira, tira -.
Io, non pensando piú là, detti in mezzo al sole, come io avevo promesso a punto. Cascò la botte, come io dissi, la qual dette a punto in mezzo in fra il cardinal Farnese e misser Iacopo Salviati, che bene gli arebbe stiacciati tutti a dui: che di questo fu causa che il ditto cardinal Farnese a punto aveva rimproverato, che il ditto misser Iacopo era causa del sacco di Roma; dove dicendosi ingiuria l’un l’altro, per dar campo alle ingiuriose parole, fu la causa che la mia botte non gli stiacciò tutt’a dua. Sentito il gran rimore che in quella bassa corte si faceva, il buon signor Orazio con gran prestezza se ne andò giú; onde io fattomi fuora, dove era caduta la botte, senti’ alcuni che dicevano:
– E’ sarebbe bene ammazzare quel bonbardieri -;
per la qual cosa io volsi dua falconetti alla scala che montava su, con animo risoluto, che il primo che montava, dar fuoco a un de’ falconetti. Dovetton que’ servitori del cardinal Farnese aver commessione dal cardinale di venirmi a fare dispiacere; per la qual cosa io mi feci innanzi, e avevo il fuoco in mano. Conosciuto certi di loro, dissi:
– O scannapane, se voi non vi levate di costí, e se gli è nessuno che ardisca entrar drento a queste scale, io ho qui dua falconetti parati, con e’ quali io farò polvere di voi; e andate a dire al cardinale, che io ho fatto quello che dai mia maggiori mi è stato commesso, le qual cose si sono fatte e fannosi per difension di lor preti, e non per offenderli -.
Levatisi e’ detti, veniva su correndo il ditto signor Orazio Baglioni, al quale io dissi che stessi indrieto, se non che io l’ammazzerei, perché io sapevo benissimo chi egli era. Questo signore non sanza paura si fermò alquanto, e mi disse:
– Benvenuto, io son tuo amico -.
Al quale io dissi:
– Signore, montate pur solo, e venite poi in tutti i modi che voi volete -.
Questo signore, ch’era superbissimo, si fermò alquanto, e con istizza mi disse:
– Io ho voglia di non venire piú su e di far tutto il contrario che io avevo pensato di far per te -.
A questo io gli risposi, che sí bene come io ero messo in quello uffizio per difendere altrui, che cosí ero atto a difendere ancora me medesimo. Mi disse che veniva solo; e montato ch’e’ fu, essendo lui cambiato piú che ‘l dovere nel viso, fu causa che io tenevo la mana in su la spada, e stavo in cagnesco seco. A questo lui cominciò a ridere, e ritornatogli il colore nel viso, piacevolissimamente mi disse:
– Benvenuto mio, io ti voglio quanto bene io ho, e quando sarà tempo che a Dio piaccia, io te lo mostretrò. Volessi Idio che tu gli avessi ammazzati que’ dua ribaldi, ché uno è causa di sí gran male, e l’altro talvolta è per esser causa di peggio -.
Cosí mi disse, che se io fussi domandato che io non dicessi che lui fussi quivi da me quando io detti fuoco a tale artiglieria; e del restante che io non dubitassi. I romori furno grandissimi, e la cosa durò un gran pezzo. In questo io non mi voglio allungare piú inanzi: basta che io fu’ per fare le vendette di mio padre con misser Iacopo Salviati, il quale gli aveva fatto mille assassinamenti (secondo che detto mio padre se ne doleva). Pure disavedutamente gli feci una gran paura. Del Farnese non vo’ dir nulla, perché si sentirà al suo luogo quanto gli era bene che io l’avessi ammazzato.
XXXVII.
Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col papa inistimabile.
Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso che questo era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io che ero di sopra a l’Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in mano, vestito tutto di rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e piú lungo di un sacro,quasi come una mezza colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l’arte non prometteva tirare cosí lontano artiglierie di quella sorta.
Dèttigli fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s’aveva messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi.
Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l’uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi dell’omicidio, e d’altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie, e s’i’ avessi a dire particularmente le belle cose che in quella infernalità crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo. Solo ne dirò qualcuna di quelle piú notabile, le quale mi sono di necessità; e questo si è, che pensando io giorno e notte quel che io potevo fare per la parte mia in defensione della Chiesa, considerato che i nimici cambiavano le guardie e passavano per il portone di Santo Spirito, il quale era tiro ragionevole, ma, perché il tiro mi veniva in traverso, non mi veniva fatto quel gran male che io desiderava di fare; pure ogni giorno se ne ammazzava assai bene: in modo che, vedutosi e’ nimici impedito cotesto passo, messono piú di trenta botti una notte in su una cima di un tetto, le quali mi impedivano cotesta veduta.
Io, che pensai un po’ meglio a cotesto caso che non avevo fatto prima, volsi tutti a cinque i mia pezzi di artiglieria dirizzandogli alle ditte botti; e aspettato le ventidua ore in sul bel di rimetter le guardie; e perché loro, pensandosi esser sicuri, venivano piú adagio e piú folti che ‘l solito assai, il che, dato fuoco ai mia soffioni, non tanto gittai quelle botti per terra che m’inpedivano, ma in quella soffiata sola ammazzai piú di trenta uomini.
Il perché, seguitando poi cosí dua altre volte, si misse i soldati in tanto disordine che, infra che gli eran pieni del latrocinio del gran sacco, desiderosi alcuni di quelli godersi le lor fatiche, piú volte si volsono abottinare per andarsene. Pure, trattenuti da quel lor valoroso capitano, il quale si domandava Gian di Urbino, con grandissimo lor disagio furno forzati pigliare un altro passo per il rimettere delle lor guardie; il qual disagio importava piú di tre miglia, dove quel primo non era un mezzo. Fatto questa impresa, tutti quei signori ch’erano in Castello mi facevano favori maravigliosi. Questo caso tale, per esser di tanta importanza seguito, lo ho voluto contare per far fine a questo, perché non sono nella professione che mi muove a scrivere; che se di queste cose tale io volessi far bello la vita mia, troppe me ne avanzeria da dirle…”
. Benvenuto Cellini: “Vita”. Libro I . Capitolo XXXV – XXXVII . Pagine 35-37.
Il Sacco di Roma:: http://www.treccani.it/enciclopedia/sacco-di-roma_(Dizionario_di_Storia)/
Sui Lanzi : http://www.treccani.it/enciclopedia/lanzichenecchi/
Vedi precedente articolo su Benvenuto Cellini: http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1705&action=edit
Ho sottolineato, nel testo, i passaggi che evidenziano il tono generale della narrazione celliniana:
1) il tono lievemente ironico e umoristico: dopo aver tirato con l’archibugio, Cellini riceve in pieno petto frammeti di una merlatura del Castello; perde i sensi e, mentre cercano di rianimarlo, alcuni soldati zelanti e..stupidi, gli mettono della terra in bocca…rischiando di farlo soffocare!
2) durante l’assedio, che ti fanno il Papa e i Cardinaloni? Per vanità, si affacciano dalle torri del Catello, per…vedersi lo spettacolo, ma fornendo un bersaglio facile per gli “amiconi” tedeschi assedianti. E il buon Benevenuto redarguisce aspramente questi personaggi vanesi!
3) dopo aver descritto i fatti di cui è stato testimone, Cellini interrompe bruscamente la narrazione e passa ad altro, perché sa che la materia dei mille tradimenti consumati in Roma, in occasione del Sacco del 1527, è troppo incandescent, per essere analizzata a cuor leggero.
Francesco Guicciardini (vai a un precedente articolo de “ilGrandeInquisitore”: http://www.ilgrandeinquisitore.it/wp-admin/post.php?post=1599&action=edit) lasciò una descrizione indimenticabile delle nefandezze compiute dai Lanzi, e delle viltà di molti in Roma, di fronte alla protervia alla ferocia di questi nuovi Unni:
“…Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ templi a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de’ cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l’anno 410 d.C.…che era stata saccheggiata da’ goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e il numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da’ soldati, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne della loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dì la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini.Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l’esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e così le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari:e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro…”.
Francesco Guicciardini: “Storia d’Italia”. Libro XVIII. Capitolo 8°. Paragrafi 40-55.
Per il testo integrale del libro, vai al link : http://www.liberliber.it/libri/g/guicciardini/index.php
Abbiamo ricordato queste vicende, accadute 488 (quattrocento ottantotto ) anni fa, perché sono istruttive anche per la situazione storica presente, italiana ed europea. Del resto si dice: “Historia vitae magistra…” con quello che segue. .
Che ve ne pare?