Presentiamo un brano delle memorie del Cardinale József Mindszenty, in cui si parla dell’esecuzione del ministro László Rajk, avvenuta nell’anno 1949, cioè quando il Cardinale era prigioniero. Qui di seguito, trovate alcuni cenni biografici dei due personaggi del dramma (Dramatis Personae, come li chiamavano i Latini). Quelle del Cardinale sono più brevi, perché è più noto di Rajk. L’integrale delle Memorie, scaricabile gratis dal Web, si può trovare al link seguente:
C:\Users\Patella\AppData\Local\Temp\Rar$DI95.944\MEMORIE del Cardinal Mindszenty – Ungheria 1956.mht
József Mindszenty (29 March 1892 – 6 May 1975), Principe Primate, Arcivescovo di Esztergom, cardinale e leader della Chiesa Cattolica d’Ungheria dal 2 ottobre 1945 al 18 dicembre 1973. Per 50 anni egli personificò l’opposizione al fascismo e al comunismo in Ungheria, in difesa della libertà religiosa. Durante la II Guerra Mondiale fu imprigionato dalle autorità ungheresi filo-naziste. Dopo la guerra, si oppose al comunismo nel proprio Paese e per questo nel 1949 fu arrestato, torturato, processato e condannato a morte. Questi fatti provocarono la condanna mondiale, e l’ONU approvò una risoluzione in appoggio al Cardinale. Dopo 8 anni di prigione, fu liberato durante la Rivoluzione Ungherese del 1956 e si rifugiò nell’Ambasciata USA in Budapest, dove rimase fino al 1971, cioè per 15 anni. Nel 1971 gli fu permesso di lasciare il Paese, si stabilì in Austria, dove morì nel 1975.
László Rajk (Székelyvárhely, 8 marzo1909 – Budapest, 15 ottobre 1949) : Entrato giovanissimo nel Partito Comunista Ungherese, durante la guerra civile di Spagna partì volontario per arruolarsi nelle brigate internazionali. Rientrato in Ungheria, fece parte dei movimenti di resistenza contro il regime di Miklós Horthy; fu arrestato e tenuto incarcerato prima in Ungheria e poi in Germania dal 1941 al 1945. Tra il 1946 ed il 1948 Rajk fu ministro degli interni del Governo comunista ungherese e durante questo periodo si distinse particolarmente come uno dei più brutali carnefici al servizio dello stalinismo, di cui successivamente fu vittima. Arrestato il 16 giugno 1949, nell’ottobre del 1949 fu condannato a morte per alto tradimento, insieme ad altri esponenti comunisti, ed impiccato. Secondo l’accusa, Rajk avrebbe complottato con il Vaticano, con Tito e con gli Stati Uniti per rovesciare il governo comunista ungherese. Sette anni più tardi, l’allora segretario del Partito Comunista ungherese Mátyás Rákosi annunciò che il processo Rajk, come altri, era basato su accuse false riabilitandolo. Da stigmatizzare che alcuni anni più tardi János Kádár, nuovo premier ungherese, rivelò che anche Rákosi si era reso responsabile di processi politici condotti contro membri attivi del movimento operaio basati su false accuse, allo scopo di conquistare e conservare la direzione del partito.
“ …Siccome il 15 ottobre 1949 dalla finestra della mia cella avevo assistito a un’esecuzione, in seguito mi venne il sospetto che, quella mattina, avessero giustiziato proprio lui in quel cortile. Avevano cominciato a erigere il patibolo fin dalle prime ore del mattino a suono di martelli e di chiodi. L’ora della sveglia era stranamente passata senza che nessuno ci avesse dato il solito comando di alzarci. All’improvviso sentii un gran movimento nel cortile. La piccola apertura della finestra non mi permetteva di vedere bene, però scorgevo parte di una tribuna e il patibolo, mentre molta gente si andava radunando.
Allora bussai contro la porta, fortunatamente arrivò una delle guardie amiche e io gli domandai perché non ci avessero ancora dato la sveglia.
“Oggi abbiamo l’ordine di lasciarvi dormire di più”.
“Impiccano qualcuno?”.
“Sì, impiccano qualcuno, ma io mi gioco la testa se mi trovano a parlare con un detenuto”.
“Figlio mio, io non ho alcun rapporto con coloro che ti potrebbero fare del male. Impiccano un ufficiale, un semplice soldato o un civile?”.
“Non si tratta di un uomo qualunque. Impiccano un ufficiale”.
Ritornai alla finestra; sarei salito volentieri su una sedia, ma purtroppo nella cella non ce n’era neppure una. Allora sfilai un chiodo abbastanza lungo da una scarpa e mi arrampicai contro la parete fino alla inferriata. Con l’aiuto del chiodo allargai un po’ i fili della grata e mi misi a osservare attraverso quel buco. Sulla tribuna c’era un uomo dall’aria importante che non conoscevo, un ministro o un segretario di Stato. Attorno a lui c’erano Gàbor Péter e alcuni ufficiali di polizia, che mi avevano interrogato in via Andràssy, oltre al comandante del carcere e a vari giornalisti con il taccuino degli appunti in mano. Erano tutti vestiti di scuro. Sotto il patibolo c’era un uomo di mezza età con indosso la sola biancheria intima. Il boia fece il nodo alla corda, senza che i presenti perdessero apparentemente il buon umore. Improvvisamente però smisero di chiacchierare, perché il condannato aveva cominciato a urlare forte: “Muoio innocente!”. Pronunciai su di lui l’assoluzione, e l’esecuzione ebbe luogo. Poco dopo il cadavere venne calato giù e portato via.
Non c’è niente di più opprimente della sepoltura e della tomba di un carcerato. È come la sepoltura di una carogna. Anzi, neppure questo paragone calza, perché in molte grandi città ci sono bei cimiteri per cani e per gatti, con tombe marmoree, scritte accorate, tumuli, corone, edera, lacrime cocenti e singhiozzi che spezzano il cuore. “Il cane che qui giace”, dicono, “rimarrà per noi indimenticabile”; e coloro che dicono così continuano effettivamente a vivere nel lutto. Quando il condannato chiude gli occhi e gli passano attorno al collo il cappio, non riceve niente di tutto questo. Né la madre, né la moglie, né i figli hanno notizia della sua sepoltura e della sua tomba. Le lacrime, i fiori e le preghiere non raggiungono la sua fossa. Nessuna lapide e nessun altro segno ricorda chi giace in quel luogo. Solo il suono della tromba del giudizio universale lo raggiungerà. Fino ad allora nessuno visiterà mai il cimitero dei condannati,
Dopo quella esecuzione si erano evidentemente intrattenuti per la colazione e, quando furono sazi ed ebbero bevuto abbastanza, espressero il desiderio di “vedere Mindszenty”. Ciò avvenne la mattina del medesimo 15 ottobre 1949. Due ufficiali entrarono nella mia cella e uno di loro mi disse: “Il compagno segretario di Stato ha ordinato di condurla al primo piano. Ci segua! Le faccio tuttavia notare che dovrà comportarsi come un condannato, altrimenti sarà punito”.
Io decisi di tacere, ma ciò non fu per paura della minaccia. Anche il mio Signore e Maestro si era comportato così davanti a Erode, quando l’avevano rivestito con l’abito bianco. Il discepolo non è da più del maestro e il servo non è da più del padrone.
Percorremmo il corridoio. Le mie scarpe chiodate facevano un gran rumore. Davanti e di dietro incedevano le guardie. Facevo fatica a salire le scale, ma ciò nonostante esse mi sollecitavano a fare in fretta.
Entrammo in un ufficio vuoto, dalle cui pareti pendevano i soliti quadri di Lenin, Stalin, Zukov e Rakosi. Poi aprirono la porta di un altro ufficio, io vi entrai e mi fermai là nel mezzo, nella mia divisa da galeotto, magro e pallido. Davanti a me, al centro del gruppo disposto a ferro di cavallo, si trovava il segretario di Stato che non conoscevo. Gabor Péter, i suoi uomini e un gruppo di giornalisti scoppiarono a ridere alla mia vista. Anche il segretario di Stato rise e mi domandò:
“Lei è Mindszenty?”.
Ma io tacqui.
“Questa divisa le sta molto bene”.
Tutti scoppiarono in un’altra fragorosa risata. “Desidera qualcosa?”.
Nessuna risposta.
“Adesso è così. Comanda il popolo. Anche il Papa finirà presto nello stesso modo”.
Rimanemmo ancora per un momento l’uno di fronte all’altro muti. Io pensavo al festino di Erode e alla sua vittima, Giovanni Battista.
Finalmente il segretario di Stato fece un cenno e io venni ricondotto via.
Ritornato in cella mi inginocchiai e ringraziai il Signore per avermi trovato degno di condividere gli scherni con lui, nostro salvatore e redentore…”.